Il “caso Uber” non è chiuso. I tassisti continuano nelle loro agitazioni, il governo cerca una mediazione, la riorganizzazione della mobilità urbana resta una questione calda. Perché Uber continua a provocare reazioni così violente? Perché ha così tanti problemi, non solo in Italia? Lo abbiamo chiesto al professore Umberto Bertelè, autore del libro Strategia (Egea) che mercoledì 29 marzo introduce il convegno “I nuovi business model figli della digitalizzazione: qualità, efficienza, elusione delle regole, impatto sociale” al Politecnico di Milano con la partecipazione del rettore Ferruccio Resta e di Alessandro Perego, Direttore del Dipartimento di Ingegneria Gestionale, e con gli interventi di Vittorio Chiesa, Giuliano Noci e Andrea Rangone, Professori Ordinari di Strategy & Marketing. Qui è possibile registrarsi.
Non passa giorno in cui Uber non riesca a cacciarsi in qualche guaio. E non passa giorno in cui qualcuno decida di prendersela con l’impresa californiana per qualche ragione. L’elenco dei grattacapi a cui Travis Kalanick e soci devono far fronte in quest’ultimi mesi continua ad allungarsi. E sono ben altra cosa delle proteste dei tassisti, italiani e non. Ne cito alcuni tra i più significativi.
Di recente negli Stati Uniti Uber è entrata nell’occhio del ciclone per problemi legati al cosiddetto “sexual harassment”: una ex dipendente, Susan Fowler, ha dichiarato di essere stata vittima di molestie sessuali sul posto di lavoro. Poco tempo dopo è venuto fuori un video in cui lo stesso Travis Kalanick litigava in maniera piuttosto violenta con un autista (di Uber) reo, quest’ultimo, di aver contestato la continua politica dei prezzi a ribasso della società. Poi l’accusa di furto di dati ai danni di Google, secondo cui un l’ex capo dell’unità che si occupava del famoso progetto della self-driving car avrebbe sottratto migliaia di file, fondando una startup acquisita poco dopo da Uber. Contemporaneamente la scoperta che Uber aveva inserito nella sua app il programma Greyball, volto fra l’altro a ingannare i regolatori locali. Più di recente, la sentenza che permette agli autisti di organizzarsi sindacalmente, per trattare con Uber stessa le tariffe e i compensi, e le dimissioni di uno dei top manager per incompatibilità con lo stile di leadership. Per ultima la vicenda con i tassisti italiani.
Definito lo scenario, è lecito chiedersi: come mai Uber ha così tanti problemi in ogni parte del mondo? La risposta è tutt’altro che scontata. Innanzitutto bisogna capire di chi stiamo parlando: Uber è la società che per prima ha concepito l’idea di ristrutturare il servizio privato di trasporto urbano in tutte le principali città del mondo. Anche per questo è la società che più di ogni altra è riuscita a raccogliere soldi senza quotarsi in Borsa. A oggi ha raccolto da finanziatori privati 12,9 miliardi di dollari, una cifra enorme. In più nell’ultimo aumento di capitale è stata valutata 67,8 miliardi di dollari, un terzo circa in più della capitalizzazione di Borsa di General Motors e un multiplo di quella di FCA.
Se per un’impresa che ha bisogno di crescere velocemente raccogliere grandi capitali può essere una buona notizia, per Uber non è sempre così. Kalanick e soci hanno una necessità costante di denaro. Serve a garantire alla società un’espansione su larga scala. Ma anche a rendere sostenibile un business sempre diverso città per città. Un business che porta molto spesso a ribaltare ordini, e regole, costituiti. E in certi contesti (il caso dei tassisti italiani è l’esempio più calzante) intaccare interessi costituiti e consolidati provoca reazioni anche violente. L’atteggiamento nei confronti delle regole – prima trasgredire per conquistarsi la simpatia del mercato e poi mediare con il legislatore di turno – potrebbe non essere più pagante per una società che non è più vissuta come un Robin Hood che vuole combattere le corporazioni. Se si vuole conquistare il mondo in tempi brevi, un po’ spregiudicati bisogna essere, ma oltre un certo livello di spregiudicatezza si può andare incontro a grossi ostacoli.
Un’opinione sempre più diffusa è che ci sia un problema di gestione della leadership da parte del CEO e vera “anima della società” Travis Kalanik, ed egli stesso lo ha riconosciuto a fronte delle critiche crescenti provenienti dall’interno e dall’esterno. Il paragone che viene fatto spesso in quest’ottica è quello con Google (ora Alphabet). I due fondatori del motore di ricerca più famoso al mondo a un certo punto decisero di prendere come amministratore delegato, e poi come presidente, Eric Schmidt, che era una persona con grande esperienza, per gestire le trattative “morbide”. Forse sarebbe il caso che accanto a Kalanik prendesse posto un manager in grado di gestire con maggiore diplomazia, usando un eufemismo, le situazioni più delicate.