Il “cosa fare” non basta più; dobbiamo entrare in profondità, innanzitutto nel “perché”, senza dare per scontato il buon vecchio esercizio del Business Case, che oramai si è perso. Tutti i numeri che vengono annunciati pomposamente per dimostrare l’importanza della rivoluzione digitale sono più che altro dei “Revenue Case”, dove si annunciano mirabolanti benefici, ma si è molto avari nel riflettere sui costi e gli investimenti necessari, si è molto sbrigativi sulla distribuzione temporale di azioni ed effetti e si ignorano i cosiddetti effetti collaterali (a partire dai rischi attuativi e dagli impatti problematici sull’utenza meno pronta o meno consapevole). Ma soprattutto nel “come” fare; dobbiamo confrontarci sui contenuti progettuali, sulle strategie attuative. Non basta dire che ci vuole più cultura digitale, bisogna definire quali contenuti, quali format educativi, … e poi verificare che la filiera della formazione sia preparata a questo compito titanico …
I problemi e gli errori fatti ad oggi sono – a mio modo di vedere – molti e ricorrenti.
– Pensiamo alla massiccia quantità di “body rental” che è stato fatto dalle aziende di software, soprattutto verso la Pubblica Amministrazione che ha creato problemi sia alla PA (dipendenza dal fornitore, difficoltà di replica – poche “economie di scala di sistema”) sia – alla lunga – alle stesse aziende fornitrici (prodotti poco competitivi, basso livello di export, …).-
– Pensiamo a come viene usata la finanza agevolata, sempre meno per co–finanziare prodotti e servizi innovativi e rischiosi da lanciare sul mercato e sempre di più come modo per coprire costi fissi rimasti non coperti e farsi finanziare cose già fatte.
– Pensiamo al nostro tasso di export di soluzioni digitali, distante mille miglia dai settori di punta del made in Italy, quasi come se il digitale non fosse esportabile o che l’Italia non fosse capace di esportare.
– Pensiamo ai soldi sprecati in attività banali di alfabetizzazione digitale, costruite sul presupposto che il digitale sia uno strumento che richieda semplicemente istruzione e non e-ducazione (consapevolezza dei suoi impatti, conoscenza dei lati oscuri, capacità di ripensare ai processi dove il digitale viene inserito, …).
– Pensiamo a tutte le misure per facilitare l’eCommerce delle piccole imprese, che non colgono il fatto che la sfida dell’eCommerce è molto più legata a una logistica efficace, all’innovazione nel packaging, alla capacità di fare marketing in paesi con culture di prodotto differenti dalla nostra, che non al semplice dotarsi di una vetrina digitale o all’usare con abilità il keywording per farsi trovare da Google.
Da dove ripartire dunque ? Forse è veramente venuto il momento di costruire una via italiana al digitale (riprendendo tra l’altro il percorso iniziato da Camillo e Adriano Olivetti), senza imitare maldestramente cose fatte in altri luoghi e altri contesti. Non si tratta di banale campanilismo o di nostalgia del passato: lo abbiamo già fatto nella manifattura (made in Italy e cultura del design), nell’agroalimentare (da Slow Food alla Dieta Mediterranea), nel turismo culturale centrato sulle città d’arte, nel terzo settore e mondo del volontariato: si tratta di unire visione, progettualità, offerta e comunicazione (istituzionale e commerciale) in modo da saldare il potere delle nuove tecnologie con la vocazione dei nostri luoghi e del nostro “intraprendere”: trovare dunque un dialogo più autentico e sostenibile tra tradizione e innovazione.
Per fare ciò cinque dovrebbero essere – a mio modo di vedere – i filoni da cui (ri)partire. Questi filoni andranno naturalmente approfonditi – in termini di obiettivi, leve, rischi e percorsi attuativi – e poi prioritizzati.
* Andrea Granelli è fondatore della società di consulenza Kanso, già creatore di Tin.it