L’Italia ha ripreso ad andare avanti, il venture capital italiano sta tornando indietro. Il PIL cresce più del previsto, gli investimenti di capitale di rischio in startup a fine anno saranno probabilmente inferiori a quelli del 2016, che erano già poca cosa rispetto alla media europea. I venture capitalist italiani investono poco, il venture capital italiano è a una “distanza siderale” rispetto al resto d’Europa. Nell’ecosistema si dice da tempo. Adesso c’è anche la certificazione istituzionale del ministro dello Sviluppo Economico. E visto che l’occasione in cui Carlo Calenda l’ha rilasciata è stata il bilancio del Piano Industria 4.0, nel primo giorno d’autunno, è come vedere il preside che bacchetta gli studenti che non hanno fatto i compiti per le vacanze. Dimenticando, però, di capire se i professori hanno fatto bene la loro parte.
CDP è socio del Fondo Italiano di Investimento, sgr presieduta da Innocenzo Cipolletta, che ha lanciato diversi fondi di fondi. Tra gli altri il FII ha investito su Sofinnova Partners, un fondo di venture capital francese. Due volte. La prima volta 15 milioni nel 2012. Si leggeva nel comunicato diffuso in quell’occasione che Sofinnova si sarebbe impegnata “a dedicare una significativa parte dei nuovi capitali raccolti a investimenti in startup italiane”. Non è andata così: i capitali hanno seguito altre vie paneuropee, escludendo l’Italia. Eppure il FII ha replicato l’investimento (20 milioni) su un altro fondo di Sofinnova che in Italia a questo punto ha investito (soltanto 6 milioni) ma andando sul sicuro e creando, di fatto, un altro intermediario: l’acceleratore Biovelocita creato da un personaggio come Silvano Spinelli, l’uomo di Eos, la startup biotech venduta agli americani per oltre 400milioni di dollari.
Una scelta quanto meno singolare quella di allocare complessivamente una cifra equivalente a circa un terzo dell’anemico mercato italiano su un fondo francese, anche se tra i partner c’è un italiano. Sul Corriere della Sera di mercoledì 11 ottobre Massimo Sideri invita Cassa Depositi e Prestiti e FII a far tesoro delle esperienze (non sempre positive) fatte finora in Italia nel lavoro di sostegno al venture capital. Invito più che condivisibile e necessario adesso che si sta giocando una nuova e importante partita attorno a Itatech, la piattaforma creata da Cassa Depositi e Prestiti e Banca Europea degli investimenti, 200 milioni di euro a sostegno del trasferimento tecnologico. Anche qui c’è un gap da colmare, quello fra quantità e qualità della ricerca scientifica e innovazione applicata nelle imprese. Tutto perfetto, se non fosse che ancora una volta buona parte delle risorse potrebbero finire (e restare?) fuori dall’Italia. Attorno a Itatech si sta lavorando da mesi e alcuni rumors dicono che entro fine anno una buona parte della dotazione finanziaria potrebbe andare a un fondo europeo, molto probabilmente ancora Sofinnova. Ma allora perché chiamare Itatech il progetto e non Eurotech? Il ministro Calenda, che in ben altre occasioni non si è fatto intimorire dalla grandeur, è informato delle trattative con i francesi su Itatech? Forse sarebbe necessario controllare la bussola per rivedere in quale direzione spingere per poter davvero alimentare, sostenere e far crescere il venture capital italiano. A meno che dalle parti del FII e di Cassa Depositi e Prestiti non siano convinti delle capacità dei nostri venture capitalist.
P.S. Sarebbero immaginabili scelte simili per la Caisse des Depots? Come reagirebbero a Parigi?