Conosco Gianluca Dettori da vent’anni. È una persona di grandissima visione coniugata a buon senso (disclaimer: il mio giudizio potrebbe essere un po’ biased dal fatto che siamo diventati amici, ma non ho dubbi al riguardo).
Gianluca ha appena annunciato il suo ingresso nel mondo del Private Equity con un fondo dedicato al settore Health. Ne abbiamo parlato con Giovanni Iozzia ad Innovation Weekly (qui il link per chi volesse risentire la puntata e capire le logiche dietro al passaggio da Primo Ventures in Primo Capital).
Ma è stata soprattutto l’occasione per ragionare su un po’ di aspetti (Venture Capital, Private Equity e Startups), su cui spesso si fa parecchia confusione (e talvolta anche molto inutile rumore). Vi lascio un po’ di highlight della nostra conversazione con Gianluca.
Che differenza c’è tra Venture Capital e Private Equity?
“Sono due asset class con delle similitudini ma hanno modelli di business molto diversi”, spiega Gianluca. “Un fondo di Private Equity fa poche operazioni, di taglio più grande, e guarda ad aziende che non hanno tassi di crescita del 200% all’anno come invece fa il Venture Capital. Guarda invece ad imprese profitable che crescono a due cifre (del 15-25%, che resta tanta roba. Sui mercati stabilizzati, quando cresci del 5%, stappi la bottiglia). Lavorando su aziende con un profilo di rischio (e di rendimento) meno estremo, con 5-7 operazioni ove mediamente fai 3x (in genere difficilmente ne sbagli una, al limite fai 2x) e produci ottimi rendimenti per gli investitori”.
Il modello di business quindi è differente: si punta sempre su “growth” e “tech”, ma, lavorando con aziende più mature e già profitable, non sei esposto alla power law e quindi non devi cercare rendimenti estremi per compensare le perdite.
La crescente sovrapposizione tra Venture Capital e Private Equity
Il trend, tra l’altro, è quello di un crescente avvicinamento/sovrapposizione tra i due strumenti (VC e PE) tanto che, da un po’ nel mondo anglosassone, si guarda agli apporti di capitale alle startup riferendosi complessivamente agli EPP (Equity Private Placement), visto che è sempre più difficile tracciare confini netti tra le diverse modalità.
Come ho già avuto occasione di scrivere, l’investimento in startup si è progressivamente “imbastardito” con l’ingresso, tra gli altri, anche del private equity, che oggi è normale trovare in particolare nei round più avanzati (dal C/D in su), anche se talvolta interviene anche in fasi precedenti.
Ragioni? Diverse, tra cui l’inaridimento del canale delle IPO che fa sì che molte startup arrivate a livello di unicorno o quasi continuino ad avere bisogno di capitali (tanti).
Gran parte delle startup diventano “normali” imprese
Tranne poche eccezioni (gli unicorni appunto), le startup, salvo che muoiano o vengano acquisite, ad un certo punto si trasformano in “normali” imprese. Devono farlo. Questo significa trovare un modello di sostenibilità economica (profittabilità).
Così facendo entrano in una fase di impresa diversa, con tassi di crescita meno estremi ma comunque interessanti. Entrando in questa fase, escono dall’interesse del Venture Capital (che in questi casi spesso tende a liberarsi delle partecipazioni, anche perché i fondi non possono essere estesi all’infinito).
Gianluca ci ha raccontato il caso di Iubenda su cui è stato tra gli ealrly investor. Iubenda è nata da un power point e da un imprenditore geniale (Andrea Giannangelo). È diventata rapidamente “profitable” auto-finanziando così la crescita successiva.
“Ad un certo punto, quando l’azienda con 200 mila clienti in tutto il mondo era solidamente profittevole (ebtda margin al 40%), siamo andati sul mercato. C’erano un centinaio di offerte sul tavolo, di tre tipologie: Venture Capital (quindi rilanciare tutto quanto per moltiplicare la crescita), Private Equity (continuare il percorso di crescita sulla scia di quanto fatto finora) e le offerte industriali (uscire)”
“Alla fine abbiamo scelto la terza opzione (exit con Team.blue, società leader in Europa per fornitura di servizi web con sede in Belgio), anche se Andrea aveva accarezzato la seconda (Private Equity) che gli avrebbe consentito di continuare a guidare il progetto d’impresa ma, al contempo, di monetizzare parte degli investimenti fatti e mettersi in tasca un po’ di soldi”.
(Nota: il venture capital di solito non lo permette, visto che tengono il founder “hungry” fino alla exit)
Di certo, l’opzione del rilancio non è stata considerata. Un po’ per la necessità degli investitori di uscire dall’investimento (un VC fund ha 5-10 anni di orizzonte, andare oltre diventa un problema). Un po’ perché è difficile continuare a produrre crescita da Venture Capital. Il rallentamento dei tassi di sviluppo, salvo che tu abbia un corno sulla fronte, è fisiologico.