La proposta

Under 35, più vantaggi per le partite Iva

Il deputato Boccadutri (Sel) vuole estendere l’esenzione Iva da 30 a 65mila euro: “L’Ue lo consente”. Favorirebbe “1,1 milioni di imprenditori individuali, 537mila autonomi e anche le startup”. Ma solo senza dipendenti…

Pubblicato il 15 Mag 2014

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Un’opportunità in più per gli under 35 che aprono partita Iva: la propone il deputo di Sel, Sergio Boccadutri, che chiede l’estensione del regime dei minimi fino al 31 dicembre 2016 per le partite Iva con volume d’affari non superiore ai 65mila euro intestate a giovani fino a 35 anni. Se la proposta venisse accolta, sostiene il parlamentare, significherebbe “l’esonero dall’Iva di circa 1.150.00 imprenditori individuali, 537.00 lavoratori autonomi, abbassando la pressione fiscale proprio su quei soggetti che iniziano una startup e che percepiscono dalla propria attività imprenditoriale un reddito minimo”. Ieri Boccadutri ha presentato su questo argomento un ordine del giorno al governo, che è stato accolto con formula piena, dicitura che indica l’impegno dell’esecutivo a procedere in questa direzione.

Cosa significa in sostanza la proposta di Boccadutri? Attualmente il regime dei minimi per le partite Iva ha un limite fissato a 30 mila euro, cioè sono esentati dal pagamento di questa imposta i contribuenti che hanno conseguito ricavi o compensi non superiori a 30mila euro.

Esiste però una deroga europea a questa norma, scaturita proprio da una richiesta del governo italiano, anzi più deroghe. Innanzitutto una decisione del Consiglio dell’Unione europea del 2010 ha autorizzato la Repubblica italiana a mantenere il tetto dei 30mila euro quando per gli altri Paesi della Ue la soglia massima per l’esenzione dall’Iva era scesa a 5mila euro. Successivamente, con la decisione di esecuzione 2013/678/UE del 15 novembre 2013, l’Italia è stata autorizzata a esentare dall’Iva i soggettivi passivi il cui volume d’affari annuo non superi i 65mila euro. Questo però fino al 31 dicembre 2016, quando è previsto che la norma cambi ulteriormente.

Insomma, “esiste questa possibilità di deroga offerta dall’Unione europea, perché non sfruttarla?” si chiede Boccadutri. E così ha fatto, presentando nelle scorse settimane un emendamento al collegato lavoro, in sede di conversione, che però è stato dichiarato inammissibile perché “non inerente alla materia del lavoro”. Ci ha riprovato ieri con l’ordine del giorno, e stavolta è andata meglio. Avere “accolto in pieno” l’odg significa per il governo aver preso un impegno a dare attuazione alla normativa.

Va detto però che per ottenere la sospirata esenzione dall’Iva, avendo un volume d’affari superiore ai 65mila euro, il contribuente deve rispondere a una serie di specifici requisiti: non aver avuto lavoratori dipendenti o collaboratori (anche a progetto), non aver effettuato cessioni all’esportazione, non aver erogato utili da partecipazione agli associati con apporto di solo lavoro, non aver effettuato nel triennio precedente acquisti di beni strumentali per un ammontare superiore a 15mila euro. Cosa c’entrano le startup con tutto questo? Boccadutri ritiene che la misura possa favorire circa 1.150.000 imprenditori individuali e 537.000 lavoratori autonomi, “ma anche quegli startupper che partono come impresa individuale. La stragrande maggioranza delle nuove partite Iva – dice – sono intestate a giovani lavoratori costretti ad aprirne una come unica possibilità di ingresso nel mondo del lavoro, così come in molti altri casi si tratta di giovani che lanciano una startup individuale. È una decisione importante, che se attuata, può dare risposte al dramma delle partite Iva riducendo il loro carico fiscale in questi tempi di crisi. Insomma, vogliamo dare una mano agli sfruttati garantendo loro la possibilità di un carico fiscale minore”.

Va tuttavia precisato che un’eventuale esenzione dall’Iva fino ai 65mila euro non comporterebbe automaticamente la “scomparsa” di altre imposte. Il cosiddetto regime dei minimi prevede un’imposta forfettaria che sostituisce Irap e Irpef per i primi cinque anni di attività, oltre che una riduzione degli obblighi contabili e l’esenzione dagli studi di settore. Insomma, qualcosa i contribuenti dovranno comunque pagare. Ma per il deputato di Sel si tratta comunque di cifre molto basse.

E la copertura finanziaria per il provvedimento? Il politico riferisce che, secondo dati del Ministero dell’Economia, la misura avrebbe bisogno di una copertura finanziaria di 29 milioni di euro annui. Ultimamente ha lanciato una sorta di provocazione: la sua mozione, approvata alla Camera, che impegna il governo a sospendere il conio delle monetine da 1 o 2 centesimi, porta ad un risparmio di 21 milioni di euro, solo per il conio. E allora perché non utilizzare questo denaro per estendere il regime dei minimi per le partite Iva? “In ogni caso – specifica – per lo Stato è una cifra esigua e quindi di facile reperibilità, mentre la misura offrirebbe una boccata d’ossigeno a tanti giovani con partita Iva”.

Va detto anche che questa opportunità offerta dall’Europa non risolve certo le difficoltà in cui si muovono le imprese in Italia. Per esempio Marco De Rossi, giovane founder milanese di Oilproject, piattaforma online gratuita di contenuti formativi messi a disposizione da studenti ed insegnanti, fa notare che “il regime partita Iva dei minimi è uno strumento ambiguo, e su cui comunque grava il 27% di aliquota della gestione separata Inps, che viene usato in mancanza di alternative più convenienti per mascherare lavoro parasubordinato. La soluzione – propone lo start upper – è risolvere il problema alla radice diminuendo il cuneo fiscale complessivo, offrendo nuovi contratti flessibili, ma soprattutto offrendo finalmente ammortizzatori sociali veramente universali (anche per le partite Iva). A colpi di ‘eccezioni’ – ad esempio estensione del regime dei minimi o incentivi e contratti solo per startup innovative o altre categorie – si risolve poco. Sono solo dei buoni palliativi. Il problema in Italia è uno, e uno solo. E riguarda sia noi startupper digital, sia i freelance, sia le pmi in settori tradizionali, sia le grandi aziende: competitività, e cioè costo del lavoro complessivo. Guardiamo la trave, non la pagliuzza”.

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