Uber “supera la valutazione record di 50 miliardi di dollari”: così hanno titolato – sfumatura più, sfumatura meno – le principali testate italiane. Una notizia che ha immediatamente suscitato grande attenzione sia per l’esorbitante cifra in gioco sia per Uber stessa, rampante ma anche controversa startup californiana fornitrice di un’app per noleggio vetture con conducente. In effetti si tratterebbe della capitalizzazione più alta nella storia delle imprese non quotate in Borsa. Ma come sono stati calcolati questi 50 miliardi? E una valutazione di questo tipo corrisponde all’effettivo valore di un’impresa come Uber, nata relativamente da poco, fortemente contrastata in varie parti del mondo e già alle prese con diversi competitor? Lo abbiamo chiesto a Umberto Bertelè, ordinario di Strategia e Sistemi di pianificazione al Politecnico di Milano e chairman degli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Polimi. Bertelè, che è anche autore di Strategia (Egea, 2013), volume incentrato appunto sulle strategie di impresa nazionali e internazionali, sottolinea innanzitutto come “la notizia della valutazione di Uber sia da dare al condizionale, come hanno fatto tutte le testate internazionali del settore”.
Venerdì scorso è stato il Wall Street Journal a riferire che Uber “sta pianificando di raccogliere dagli 1,5 miliardi ai 2 miliardi di dollari in nuovi finanziamenti, cosa che le consentirebbe di raggiungere una valutazione di 50 miliardi di dollari e oltre”. La stessa indiscrezione è stata poi confermata da Bloomberg e da The New York Times. Tutti hanno citato fonti anonime e riferito di una raccolta fondi ancora da portare a termine. Insomma, pare proprio che il procedimento sia in fieri, nonostante i titoli “assertivi” dei media italiani, che sembrano dare il fund raising per completato.
Ma come si calcola quanto vale un’impresa, a maggior ragione se non è quotata in Borsa, come non lo è la startup fondata da Travis Kalanick? “Quando la società non è sul mercato ufficiale – spiega Bertelè – le transazioni si svolgono sul mercato privato, con la ricerca di fondi, istituzioni e/o singoli disposti ad investire. La capitalizzazione si calcola partendo dal prezzo per azione pagato per l’ultimo aumento di capitale e moltiplicando tale prezzo per il numero totale delle azioni”.
Indubbiamente 50 miliardi di dollari sono una cifra straordinariamente elevata. Solo Facebook, nel 2011, era arrivata a una capitalizzazione di 50 miliardi prima di quotarsi di Borsa. “Una capitalizzazione sinora mai superata – ricorda Bertelè – anche se il caso Facebook ha fatto da apripista a molti comportamenti simili negli anni successivi”. Nella prima giornata del debutto al Nasdaq a maggio 2012 – giornata pur funestata da incidenti tecnici con conseguenti disguidi e rallentamenti – la società fondata da Mark Zuckerberg rastrellò 16 miliardi di dollari raggiungendo i 100 miliardi di capitalizzazione, cioè in pratica raddoppiando il suo valore iniziale. In seguito crollò di nuovo a 50 miliardi di valutazione, ma oggi ne vale più di 200.
A differenza di Uber, però, Facebook non aveva debiti. Uber li ha. E anche per questo è sempre a caccia di nuovi investitori. Nella lista elaborata e diffusa lo scorso febbraio dal Wall Street Journal su “The Billion Dollar Startup Club”, ovvero le startup miliardarie di tutto il mondo in attesa di quotazione (che attualmente hanno raggiunto quota 91), Uber è la numero due dopo la cinese Xiaomi. A dicembre 2014 la società di San Francisco aveva raggiunto una valutazione di 41,2 miliardi di dollari contro i 46 dell’azienda asiatica. Ma, sempre a quella data, Uber aveva già raccolto tra gli investitori (total equity funding) 2,8 miliardi, il doppio di Xiaomi: cifra che, con la nuova richiesta di 1,5-2 miliardi agli investitori, salirebbe a 4,3-4,8 miliardi di dollari.
Può una società tuttora in perdita essere valutata una cifra record? Intanto bisogna capire perché è in perdita e, entrando nello specifico, cosa significa tecnicamente esserlo. “Uber – ricorda Bertelè – è presente in oltre 250 città del mondo e in ogni città trova un mercato particolare dove deve partire da zero. Normalmente succede che nelle fasi di avvio si ritrovi a finanziare le macchine che passano dalla sua parte, per esempio concedendo un minimo garantito agli autisti finché non riescono a farsi una clientela. Sono soldi che se ne vanno: possono essere considerati come investimenti ma, dal punto di vista contabile, è più probabile che finiscano per essere conteggiati come spesa corrente”.
Altro problema: i competitor. “Il modello Uber – spiega il docente – ha corso più veloce di Uber stessa. Quando si è scoperto che si poteva replicare quel tipo di meccanismo sono nate un po’ ovunque tante piccole Uber. L’esempio più rilevante è quello del mercato cinese, dove la società californiana è entrata da poco trovando già due grossi competitor. Si tratta di una società finanziata da Alibaba, il gigante cinese dell’e-commerce, e di un’altra finanziata da Tencent, il Facebook della Cina: insieme le due controllavano il 90% del mercato Ncc da smartphone. Poi, con la benedizione del governo, si sono fuse tra loro. Adesso Uber si è alleata con Badoo, il Google cinese”. Ma è chiaro che la strada è in salita.
Altre criticità relative alla company di San Francisco hanno a che fare con le normative locali sulla libera circolazione delle vetture a noleggio con conducente (sappiamo che da tempo i tassisti di molti Paesi sono in prima linea nella battaglia contro il colosso americano). Ma ultimamente sono emerse anche questioni “sindacali”: negli Usa due autisti Uber hanno fatto ricorso in tribunale sostenendo di non essere free-lancer (come li considera l’azienda) ma dipendenti. L’attesa sentenza in proposito potrebbe aprire nuovi scenari sulla modalità di gestione delle risorse umane in ambito aziendale.
Insomma, Uber sembra proprio essere ancora un punto interrogativo. Può un punto interrogativo valere oltre 50 miliardi di dollari? “In giro ci sono indubbiamente valori molto alti, bisognerà capire con il tempo se dietro c’è sostanza o meno” commenta Bertelè. “È possibile che in questo mare di imprese super-valutate ci sia la nuova Google o Facebook, così come ce ne saranno altre destinate a sparire o a fare vita grama. È una scommessa. Una scommessa realizzata su una platea di imprese estremamente ampia. Non resta che aspettare”.