IMPRENDITORIALITÀ

Strategia, design thinking e open innovation: la cassetta degli attrezzi dello startup mentor

Dalla definizione della strategia al design thinking fino all’open innovation. Perché saper affiancare e far crescere una nuova impresa è una competenza utile anche all’interno delle grandi aziende. Ma non si può improvvisare. Ecco i concetti chiave del corso di formazione del Polihub con MIP ed EptagonLab

Pubblicato il 07 Giu 2018

Mentoring

È appena partito l’Entrepreneurship Lab, il percorso di otto settimane organizzato da Polihub con EptagonLab, dove i futuri startup mentor metteranno a frutto all’interno dell’incubatore della Fondazione Politecnico di Milano le nozioni apprese nella prima tappa del percorso, il corso EI&S – Entrepreneurship, Innovation & Startup del MIP, la Graduate School of Business del Politecnico di Milano, Dopo una prima fase dedicata al passaggio dalla teoria alla pratica, viene assegnata una startup ai futuri mentor (affiancati da un mentor senior) che concluderanno il loro percorso in settembre.

È molto utile riprendere i concetti chiave emersi proprio durante il primo corso di formazione, che ha radunato a Milano quasi 40 manager e professionisti decisi ad intraprendere la “carriera” (ma sarebbe meglio dire la vocazione) dello startup mentor.

Strategia: opportunità e vantaggio devono viaggiare parallelamente

Uno dei passaggi fondamentali nel percorso per diventare startup mentor, così come definito e messo a punto nel modello di formazione teorica e pratica dal MIP e dal Polihub insieme, riguarda la strategia. A fare da mentor, in questo caso, è stato Antonio Ghezzi, professore di Strategy & Marketing presso il Politecnico di Milano e membro della Core Faculty del MIP, che, ai 40 manager e professionisti presentatisi al corso teorico ha spiegato alcuni concetti chiave che nella menta di un futuro startup mentor dovranno rimanere saldamente impressi.

Innanzitutto, il concetto di imprenditorialità, intesa come ricerca continua di opportunità (possibilmente profittevoli); una ricerca che implica tuttavia un importante passaggio culturale ed organizzativo, quello della strutturazione del team (di una organizzazione, appunto) che permetta di cogliere le opportunità (la ricerca, da sola, non basta).

Se l’imprenditorialità può essere quindi sommariamente identificata come la ricerca di opportunità, la strategia (di fatto un piano che integra un insieme coerente e coeso di decisioni strategiche con determinate caratteristiche come il lungo termine, il peso degli investimenti, la trasversalità di impatto su tutto il team/organizzazione, ecc.) può essere intesa come la ricerca del vantaggio; la strategia deve avere un obiettivo concreto e misurabile, altrimenti diventa filosofia nella sua negativa accezione.

Per le startup questi concetti sono spesso un po’ “labili” perché sono organizzazioni temporanee (quindi destrutturate) alla ricerca di un modello di business replicabile e scalabile che tuttavia non ha ancora un vantaggio. Motivo per cui le performance di una startup devono essere misurate attraverso il concetto di valore: una startup deve creare valore per qualcuno (value creation) e deve essere sostenibile (value capture: cattura valore, cioè attrae capitale; deve monetizzare); l’idea, per quanto innovativa, di per sé conta poco. Perché produca valore deve rispondere a un bisogno (creato o scoperto non fa differenza) perché è nella risposta al bisogno che si genera valore.

Molto spesso le startup sono molto brave nella value creation, meno nella value capture; il ruolo dello startup mentor è anche quello di guidare gli stratupper nella comprensione di imprenditorialità e strategia, che non devono essere sequenziali ma paralleli: opportunità e vantaggio devono vivere insieme.

Soprattutto tenendo conto del fatto che i business angeli, solitamente i primi investitori delle startup, decidono dove e come distribuire i fondi sulla base delle cosiddette 3T:

TEAM (meglio se multidisciplinare e complementare);

TECHNOLOGY (su quale tecnologia o innovazione fa leva l’idea e come si genera il valore);

TRACTION (capacità di dimostrare quanto l’idea è in grado di attrarre mercato).

Accelerare i percorsi con il Design Thinking

Nella cassetta degli attrezzi dello startup mentor ci sono anche design thinking ed open innovation. Del primo aspetto, durante il corso EI&S, se ne sono occupati Cabirio Cautela e Stefano Magistretti, rispettivamente professore di Design Management al Politecnico di Milano e Senior Researcher dell’Osservatorio Design Thinking for Business della School of Management del Politecnico di Milano.

Senza entrare nel merito delle tecniche e degli approcci che possono aiutare uno startup mentor, ciò che risulta importante evidenziare è l’obiettivo del design thinking, metodologia con la quale si cerca di risolvere in modo creativo (attraverso diversi approcci e tool) un problema, proponendo una soluzione.

Il design thinking è un mix del pensiero analitico e del pensiero intuitivo che devono alternarsi costantemente – processo di iterazione continua, convergente/divergente (come nel CPS – creative problem solving) in quattro processi chiave: discover, define, develop, deliver.

Di fatto, il design, inteso come più ampia disciplina e quindi non solo come approccio creativo alla gestione/risoluzione di un problema, può rappresentare una fonte di valore per le startup se introdotto come elemento di differenziazione rispetto ad almeno tre vettori competitivi:

1) ridefinizione del senso/significato di una esperienza di consumo o acquisto;

2) ottimizzazione tecnologico-funzionale di un bene (prodotto o servizio) per la soluzione di un bisogno specifico;

3) creazione di tool per l’auto-realizzazione di servizi e prodotti.

Il design thinking assume particolare rilevanza per una startup perché è ciò che aiuta ad accelerare il percorso verso la realizzazione di un MVP (minimum viable product), una versione funzionante ma semplificata della soluzione che gli startupper stanno progettando (una sorta di prototipo); ciò che consente di sperimentare l’eventuale valore del progetto (quindi se ha un mercato e se offre un vantaggio o risolve un problema) prima di proseguire con le fasi successive (ed eventualmente di intervenire con revisioni e “cambi di rotta” prima che sia troppo tardi).

Open innovation: come farla funzionare

Nella cassetta degli attrezzi di uno startup mentor non può mancare la conoscenza e l’approccio all’open innovation, forse perché oggi innovare non è un processo così semplice.

A spiegare perché (e come l’open innovation può invece fare da volano) sono stati, sempre durante la prima fase del percorso di formazione MIP+Polihub, Stefano Mainetti, Ceo del Polihub, e Stefano Mizio, Head of Startup Acceleration Programs & China Projects del Plihub.

Oggi l’innovazione è sempre più science/tech driven, c’è una rapida diffusione della conoscenza, un’adozione ancor più rapida di prodotti innovativi, una riduzione del ciclo di vita dei prodotti sul mercato ed, infine, un aumento dei costi di R&D. Nonostante questa complessità, un approccio di business difensivo non è sostenibile nel lungo periodo perché le variabili ed il contesto circostanti “obbligano” di fatto al cambiamento (l’alternativa è il fallimento).

L’open innovation rappresenta una risposta valida al cambiamento continuo ma, avvertono Mainetti e Mizio, non esistono blueprint e metodologie “magiche”. Uno startup mentor, tuttavia, deve tenere ben in mente un principio: l’approccio tradizionale delle grandi corporation non funziona con le startup (sia nel caso in cui le si voglia far crescere e diventare impresa, sia nel caso in cui le si voglia incorporare in un’organizzazione aziendale).

L’open innovation è prima di tutto un approccio culturale, è l’elemento su cui insiste particolarmente Mizio. Ci sono manager con un mindset aperto, sono in grado di collaborare, fare network e rispettare l’ecosistema. Altri che invece hanno un’impostazione differente. Lo startup mentor dovrebbe avvicinarsi alla prima tipologia di manager.

Guardando invece all’open innovation come approccio da introdurre nelle corporation più tradizionali ciò che serve è l’attitudine all’imprenditorialità, avverte Mainetti richiamando i concetti della lezione di Ghezzi; una propensione che richiede però anche enormi sforzi in formazione, nell’adozione di approcci creativi per esempio lavorando con innovation lab e community, apertura a contest ed eventi di stimolazione delle ideee come gli hackathon, solo per citarne alcuni.

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Nicoletta Boldrini
Nicoletta Boldrini

Tech journalist

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