Questa settimana segnalo un thread molto interessante di Bill Gurley, venture capitalist. Bill, da oltre 20 anni General Partner di Benchmark, ha vissuto in prima persona le due grandi crisi (2001 e 2007-08) e quindi le sue parole hanno un certo peso oggi quando ci si interroga su cosa attenderci dal cosiddetto VC pullback (di cui avevo parlato su questa stessa rubrica giusto un mese fa).
Il punto centrale del suo ragionamento è di una saggezza e semplicità disarmante.
Quando una azienda non è cash flow positive, sta vivendo “on borrowed time”. E in periodi come quello attuale dove i capitali sono scarsi e costosi, il tempo scorre paradossalmente molto più veloce per le startup.
Precisazione: tutte le startup – fino al momento in cui non arrivano a break even – vivono su capitali di terzi. La differenza – tanta – la fa il contesto di mercato.
In mercati espansivi – e gli ultimi anni sono stati ultra-espansivi anche grazie ai tassi eccezionalmente bassi – è relativamente più semplice avere accesso a capitali (abbondanti) a valutazioni (mediamente alte) che minimizzano la dilution. Questo consente alle startup (quelle buone, le altre hanno sempre poche opzioni e di scarsa qualità) di poter assumere di fare nuovi aumenti di capitali e pertanto di utilizzare il capitale esistente per costruirsi il mercato e accelerare la propria crescita rimandando oltre la convergenza verso il break even. Quindi, a condizione di raggiungere le milestone prefissate (traction) e mantenere immutato l’interesse dal mercato (attenzione che questa è merce abbastanza volatile), il tempo si può estendere raccogliendo nuovi capitali.
In situazioni come quella in cui stiamo entrando – di correzione o contrazione – la situazione cambia. È dannatamente più difficile raccogliere capitali (da un lato, i VC aumentano la quota da riservare alle portfolio company – family first – e quindi riducono i nuovi investimenti diventando iper selettivi, dall’altro, gli LP immettono meno capitali nei fondi e quindi ci sono meno nuovi fondi che entrano sul mercato). Per startup buone con investitori solidi alle spalle la sopravvivenza è possibile ma può diventare esercizio oltremodo costoso in un mondo di valutazioni più fredde (leggasi dilution). Per tutte le altre la barra si alza tantissimo.
In questo scenario l’unica cosa che una startup può fare è quello di comprare … tempo. Visto che l’opzione della raccolta di nuovi capitali è molto difficile e costosa, l’unica strada possibile è quella di estendere la runway, tagliando costi (layoff) e/o riducendo investimenti (in gran parte nuove assunzioni e customer acquisition costs – cac). Tagli cui oggi il mondo del tech non è abituato, in particolare in Silicon Valley ove il “rate induced boom” degli ultimi anni ha creato una competizione per i talenti generando – in particolare gli sviluppatori software, merce oggi quasi introvabile – “Disney-esque expectations”, come le definisce Gurley. Interessante capire come anche questo mercato evolverà.
Ma “The game on the field has changed”. E quelli bravi lo hanno capito e si sono mossi in modo preventivo.
Perché “culture won’t matter if your company isn’t around”.
Ed “easy money creates distorted realities”, come ha commentato Michael Jackson, di cui ho parlato un paio di settimana fa (qui il link).