Startup (e incubatori) universitari: come farli diventare più sexy

«L’università è frammentata e risente del fatto di essere una pubblica amministrazione», dice il presidente di PNICube Giovanni Perrone. «Dobbiamo uscire dal nostro recinto e lavorare sulla comunicazione. Ma il mercato deve capire che non c’è solo il digitale»

Pubblicato il 10 Mar 2017

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«L’ università ci deve assicurare un’unica interfaccia. Il fattore che rende la relazione complicata è che il mondo universitario è molto frammentato, un insieme di monadi ed è per questa ragione che la collaborazione di solito si basa sui rapporti personali». È l’appello lanciato da Massimo Debenedetti, vicepresident Research & Innovation di Fincantieri, in un’intervista a EconomyUp. L’università, sostiene il manager, non ha e non da punti di riferimento quando deve interloquire con le aziende per trasferire i risultati della ricerca. «È vero l’università è frammentata, ma le aziende sono ancora incerte», replica il professore Giovanni Perrone, neopresidente di PNI Cube, l’associazione degli incubatori universitari e delle business plan competition. È stato eletto a metà gennaio, succedendo a Marco Cantamessa di i3P-Politecnico di Torino, ma è stato segretario dell’associazione per 7 anni e da 9 organizza la Startcup a Palermo, dove insegna Innovazione Industriale e Digitale a Ingegneria. Nessuna esperienza di incubazione di nuove imprese, come succede in gran parte delle università italiane. Ma conosce bene il mondo delle startup che nascono nelle aule universitarie e spesso, purtroppo, ci restano.

«Oggi la terza missione dell’Università (il dialogo con la società e quindi con le imprese dopo le due tradizionali dell’alta formazione e della ricerca, ndr.) ha guadagnato spazio importante», spiega Perrone. «Il problema è che negli ultimi 15 anni se la sensibilità sul tema si è sviluppata, non altrettanto è accaduto per la struttura organizzativa: dobbiamo fare qualche passo avanti. Gli uffici per il trasferimento tecnologico sono ancora piccoli rispetto a quelli che ci sono negli Usa o nel Regno Unito». Non c’è però solo il problema organizzativo. «C’è un tema culturale: questo Paese è caratterizzato dalla prevalenza delle individualità, sia da parte dell’imprenditoria sia da parte del corpo docente», aggiunge Perrone.

Con queste premesse si comprende perché il dialogo fra chi sa e chi fa non è sempre facile. «Anche le aziende devono imparare, devono andare oltre la solita routine manageriale. Anche su questo bisogna lavorare», dice Perrone che affida a PNICUBE una missione ambiziosa: «Cercare e stimolare la domanda di innovazione in questo Paese, dove aziende anche importanti investono ancora poco e c’è una gran quantità di medie imprese che cominciano a interessarsi alla questione ma hanno un problema di struttura del management, spesso concentrato sulla famiglia proprietaria, che non ha il tempo di andare a guardare bene. Dobbiamo coinvolgere questi attori sempre di più». E come pensa di farlo? «Andando oltre le occasioni sporadiche, gli eventi in cui l’azienda fa da sponsor e poi finisce li. Serve sviluppare collaborazioni di respiro, vere e proprie partnership».

Per trovare partner bisogna però essere attraenti. E non sempre incubatori e startup universitari sono sexy quanto altri soggetti sul mercato. «Dividiamo la questione in due», propone Perrone. «C’è una questione velocità: tutte le strutture universitarie hanno problemi di natura burocratica: finché non si comprenderà che le università sono pubbliche amministrazioni particolari faremo fatica ad essere veloci ed efficaci, anche sul piano comunicativo». Motivazione due per il deficit di attrattività. «Gli incubatori e le startup universitarie sono frutto della ricerca scientifica e tecnologica che si fa nelle università e quindi della cultura del nostro Paese, che non è poi così tanto digitale. E si sa che è il digitale ad essere sexy per definizione. Molto di più che la manifattura o, ad esempio, le tecnologie per l’ambiente. E le startup che nascono in questi settori sono meno meno sexy perché sono b2b, per decollare hanno bisogno di investimenti più pesanti ma anche partner industriali che si muovano con un’ottica di open innovation».

Insomma, sembrerebbe che la mancanza di fascino delle startup universitarie dipenda dall’ambiente in cui nascono dove invece dovrebbero abbondare talenti e competenze. PNICube potrebbe essere l’Oscar dell’innovazione italiana ma è ancora lontano da questo riconoscimento. Ci proverà nel suo primo triennio il presidente Perrone. «C’è la necessità di uscire dal nostro recinti, di lavorare sulla comunicazione, sulla nostra capacità di raccontare le tante storie che abbiamo». E infatti nel suo primo consiglio direttivo ha proposto la creazione di un osservatorio delle startup universitarie, per individuare e selezionare quelle che possano diventare casi di studio, per mostrare che si possono nuove imprese innovative anche all’interno di quella speciale pubblica amministrazione che è l’università. E tentare di mostrarsi un po’ più sexy. Appuntamento a maggio con il MasterStartupAward. A Palermo, ovviamente.

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