Startup Act 2017: in Italia 10mila imprese innovative, ma la sfida è arrivare al mercato

Presentata al Mise la Relazione Annuale sul piano del Governo sulle startup. Un quadro roseo finché non si arriva al nodo del venture capital, che non è ancora a livello della nostra tradizione manifatturiera

Pubblicato il 19 Dic 2017

Startup

Lo Startup Act ha creato in Italia 10mila imprese ad alto contenuto innovativo, accompagnandole nella loro crescita con una dotazione finanziaria che ha permesso di dare vita anche a un gruppo di piccoli grandi campioni: DoveConviene, Bax Energy, Hifood, Solair, DriveK e una ventina di altre società (per la precisione 27) sono ormai uscite dal programma (avendo superato il fatturato annuo di 5 milioni) e valgono tutte insieme circa 18 milioni di euro di fatturato. Sono solo alcuni dei dati emersi dalla Relazione Annuale 2017 al Parlamento sulla strategia nazionale in favore delle startup e delle Pmi innovative, ovvero lo “Startup Act”, il piano d’azione varato a fine 2012 per favorire in Italia la nascita e la crescita di un vibrante ecosistema di imprese innovative.

Il direttore generale per la Politica industriale, la competitività e le Pmi Stefano Firpo ha messo in luce martedi 19 dicembre presso il Mise, presentando il rapporto, la continua espansione della platea delle startup – ormai più di 8mila, più del doppio rispetto alla popolazione rilevata due anni fa; si arriva a un totale di circa 10mila se si considerano le startup che oggi non esistono più. Il numero delle Pmi innovative è invece quasi triplicato rispetto all’anno scorso (da 204 a 565), per un valore della produzione complessivo che supera i 2 miliardi di euro. Molto rilevante il dato che indica che le startup innovative investono molto di più delle altre imprese, specialmente in asset immateriali: il loro tasso di immobilizzazioni sull’attivo patrimoniale netto (25%)  è di 8 volte superiore rispetto a quello di tutte le società italiane di capitali.

TUTTI I DATI DEL REPORT

La media mensile delle nuove iscrizioni nella sezione speciale del Registro delle Imprese dedicata alle startup innovative è passata da 161 nel 2015 a 183 nel 2016, per raggiungere quota 253 nei primi sei mesi del 2017. Il record assoluto di iscrizioni si è raggiunto a marzo 2017, con 282 nuove startup registrate. Quasi il 40% delle imprese attualmente iscritte come Pmi innovativa è una ex startup innovativa.

Crescono anche le dimensioni delle imprese destinatarie della policy del Governo: quelle che beneficiano delle agevolazioni connesse allo status di startup innovativa hanno in media raddoppiato il loro fatturato dal 2015 al 2016; le imprese riconosciute come startup innovative dal 2013 e dal 2014 lo hanno addirittura triplicato. Nel 2016 le startup e le Pmi innovative hanno espresso complessivamente un fatturato superiore ai 2 miliardi di euro, 4 Pmi innovative su 10 hanno un fatturato superiore a 1 milione, mentre 27 imprese, come indicato, hanno superato nel 2016 la soglia massima dei 5 milioni di fatturato e hanno oltrepassato lo status di startup, uscendo dal programma.

Le quasi 2.900 startup innovative per le quali sono disponibili i bilanci sia per il 2015 che per il 2016 fanno registrare una crescita del fatturato complessivo pari all’81,3%; il fatturato medio per startup innovativa è cresciuto in media di quasi 100mila euro in un anno, passando da 115mila euro a 208mila euro. La forza lavoro delle startup e delle Pmi innovative è di 46.107 persone tra soci e dipendenti.

A livello territoriale, c’è almeno una startup innovativa in 1.414 comuni italiani, e in tutte le province del Paese. Nel solo comune di Milano sono localizzate 1.028 startup innovative, vale a dire il 60% delle startup della Lombardia e il 14% di tutte le startup italiane. La più elevata incidenza di startup sul totale delle imprese attive si registra nelle province di Ascoli Piceno e Trieste.

Grazie all’intervento del Fondo di Garanzia per le Pmi è stato erogato credito bancario per 477 milioni di euro in favore delle startup innovative, e per quasi 26 milioni verso le Pmi innovative. Nel 2015 gli investimenti in equity in startup innovative agevolati dagli incentivi fiscali previsti dallo Startup Act italiano hanno toccato quota 83 milioni di euro, per un aumento del 64% rispetto al 2014. Nello stesso anno, hanno beneficiato degli incentivi fiscali 2.110 persone fisiche e 332 società di capitali, oltre mille in più rispetto al 2014. Le startup e le Pmi innovative che hanno fatto ricorso all’equity crowdfunding hanno raccolto in tutto 12,5 milioni di euro in 109 campagne, più della metà delle quali (59) è stata avviata negli ultimi 12 mesi. Infine, 151 cittadini extraeuropei (su 252 candidati, da 34 Paesi) hanno ottenuto un nulla osta al visto per lavoro autonomo startup tramite il programma Italia Startup Visa per portare in Italia la propria idea imprenditoriale innovativa.

IL DIBATTITO SUL VENTURE CAPITAL

Insomma, lo Startup Act ci ha reso un paese per startup? Sì e no. Creare una startup oggi in Italia è molto più facile, ma è il venture capital la nostra nota dolente, ha commentato Stefano Firpo chiudendo la sua presentazione: «Siamo stati bravi a far nascere 10mila startup, a trovare le risorse necessarie e seguirle nella loro prima fase di crescita, ma ora si tratta di portarle sul mercato altrimenti rischiamo che queste realtà che abbiamo nutrito nella fase iniziale di sviluppo si rivolgano a mercati di capitali più attivi e meglio attrezzati del nostro per diventare grandi».

Il nostro venture capital è in crescita, ha proseguito Firpo, ma è «incomparabile ai livelli non solo di paesi molto avanzati come Usa, Israele e Uk, ma anche di paesi che si trovano a solo un’ora di volo dall’Italia e questo è un problema su cui è necessario che sia dirottata l’attenzione politica». Un tema da far entrare nell’agenda del primo ministro «perché qui ci giochiamo il futuro dell’industria e dell’innovazione in Italia», ha concluso Firpo: «Le startup devono avere sbocchi in Italia e questo può avvenire solo se ci rafforziamo sull’erogazione di capitali significativi, perché il capitale è il fattore di successo decisivo per un’impresa innovativa. Quelle che nascono all’estero spesso non hanno idee o tecnologie migliori, ma godono di un migliore accesso ai capitali».

Il tema del ritardo italiano nel venture capital è stato al centro della tavola rotonda “Le sfide per il mercato del VC in Italia” moderata da Riccardo Luna, direttore dell’agenzia Agi. Che cosa non ha funzionato, perché siamo in fondo a tutte le classifiche? “I risultati dello Startup Act sono incoraggianti, soprattutto per la crescita delle imprese innovative (scale-up)”, secondo Leone Pattofatto, presidente Cdp Equity, che però ha ammesso che «ci manca il capitale» e ricordato l’intervento di Cdp, che ha messo a disposizione 100 milioni di euro per ITAtech. «Non è però sufficiente il solo l’intervento di Cdp», secondo Pattofatto: «Bisogna trovare modi per realizzare partenariati pubblico-privato. Lazio Innova è un esempio molto positivo di come si mettono insieme capitali delle regioni e operatori professionali».

Altro punto su cui insistere è, secondo Innocenzo Cipolletta, presidente Assonime, quello del trasferimento tecnologico, «un’attività che ancora si fa pochissimo in Italia». Le università e gli altri centri ricerca hanno difficoltà a trasferire le loro innovazioni, ha sottolineato Cipolletta, e in Italia mancano società ad hoc che si occupano di trasferimento tecnologico, presenti invece in altri paesi. Quanto al problema dei capitali, il presidente Assonime ha sottolineato: «In Italia, un paese di risparmiatori, c’è difficoltà a reperire fondi per gli investimenti in imprese innovative, il risparmio previdenziale, che vale 200 miliardi di euro, è come a montagna congelata perché investita in Bot, Cct e azioni di aziende quotate all’estero: dobbiamo scongelare questo risparmio e portarlo nell’economia reale italiana». Secondo Cipolletta il governo dovrebbe intervenire su questo aspetto e, come presidente di Fondo Italiano d’Investimento sgr, ha anche sottolineato che il Fondo si trova a lavorare su questo fronte con la concorrenza del Fei (Fondo europeo investimenti), che raccoglie fondi e li investe in tutta Europa, spesso in paesi più attivi dell’Italia sul mercato startup: il «rischio è che il Fei intercetti il risparmio italiano per portarlo verso imprese estere».

«Il vero tema qui è il matching», l’incontro della ricerca e sviluppo con quanto chiede il mercato, è intervenuto Luca Luigi Manuelli, chief digital officer di Ansaldo Energia, società di cui Cdp possiede il 60%. «Occorre mettere in relazione lo sviluppo tecnologico e le esigenze concrete delle aziende per promuovere una filiera digitale in Italia, non solo nell’energia», ha detto Manuelli. «Importante anche valorizzare i distretti industriali, dove gli stakeholder hanno l’opportunità di connettersi tra loro, come fa Ansaldo nel distretto di Genova, candidatosi a diventare centro di competenza italiano sulla sicurezza delle infrastrutture critiche».

Tuttavia le corporation italiane investono troppo poco in startup, ha osservato Riccardo Luna, e Manuelli ha ammesso che mancano le necessarie competenze perché questo avvenga. Quanto alle banche, per Firpo restano le grandi assenti del venture capital italiano anche se la rivoluzione fintech ha finalmente scosso gli istituti finanziari tradizionali e ottenuto la loro attenzione, come ha svelato Fabrizio Guelpa, responsabile Industry and Banking Research di Intesa San Paolo, che ha creato un fondo da 100 milioni di euro, di cui 15 già investiti, per le imprese innovative dell’hitech applicato al finance. Ma non basta, l’impegno di tutti gli attori, dalle banche alle grandi imprese fino ai piccoli investitori, deve essere molto più forte e convinto. Perché investire nell’impresa innovativa è investire nel futuro dell’economia, nella competitività, nel lavoro, nella previdenza. «Il mercato dei capitali italiano non è degno di un grande paese manifatturiero come il nostro», ha detto Firpo. «All’Italia serve un progetto-paese serio sul capitale di ventura».

Insomma, alle soglie del 2018, forse l’Italia ha bisogno di uno Startup Act 2.0, che coinvolga più ministeri (Finanze e Università e ricerca, per esempio) e colleghi l’offerta di innovazione con la domanda. Quel trasferimento al mercato e all’economia reale che, soldi a parte, resta la grande lacuna dell’Italia.

Valuta la qualità di questo articolo

La tua opinione è importante per noi!

Patrizia Licata
Patrizia Licata

Giornalista professionista freelance. Laureata in Lettere, specializzata sui temi dell'hitech e della digital economy, dell'energia e dell'automotive. Scrivo dal 2007 anche per CorCom, parte del gruppo Digital360

Articoli correlati

Articolo 1 di 2