Dici startup e pensi alla gioventù: un ragazzo sulla ventina, un po’ sognatore e un po’ coraggioso, uno disposto a tutto pur di realizzare un progetto e mettere su una vera impresa. Generalmente preparato, spesso con esperienze di lavoro e studio all’estero ma tipicamente romantico e disposto ad essere etichettato come precario e sfigato pur di tornare nel Belpaese. E, soprattutto, convinto che basti l’idea giusta, un investimento e un pizzico di fortuna per mettere le ali a una startup. Nell’immaginario collettivo l’aspirante imprenditore italiano è così: uno alla Mark Zuckerberg per intenderci che, grazie a un’idea geniale, non ancora trentenne può ritrovarsi con un conto in banca stratosferico.
Ma è davvero così? Chi fa startup in Italia? È roba da ventenni? Non proprio o, almeno, non sempre. A lanciarsi nel mondo delle nuove imprese sono sempre più spesso ex manager che, abbandonata carriera e vecchia vita, si sono lanciati in nuovi progetti e nuove sfide professionali. Non hanno certo la freschezza dei ventenni, sono meno disposti a dormire sotto un ponte e sono, forse, meno creativi. Ma hanno dalla loro parte esperienza e background professionale molto più elevati, maggiore conoscenza del mondo del lavoro, capacità tecniche E, spesso, una buona base economica dalla quale partire. Non solo. Chi fa startup a 40 anni e oltre non insegue gloria o riconoscimenti: c’è chi lo fa per insegnare ai figli che cambiare rotta è sempre possibile, chi per costruire qualcosa che possa essere davvero utile, chi semplicemente, per provare la soddisfazione di aver fatto la cosa giusta e dormire sereno di notte.
Abbiamo raccolto alcune storie di nuovi imprenditori che spiegano bene quali sono le differenze nel fare startup a 20 anni e farla a 40 e di chi ha rivestito il ruolo di dirigente d’azienda prima di ritrovarsi startupper.
– Claudio Cubito founder di Growish. Classe 1967, è passato dal ruolo di manager a founder di una piattaforma per acquistare un regalo tramite colletta online. “Voglio dimostrare ai miei figli che non è mai tardi per invertire la rotta” dice. E spiega le differenze nel fare impresa a 20 anni e farla alla soglia dei 50: “A 20 anni sei creativo, affamato di conoscenza e disposto a dormire sotto i ponti pur di raggiungere un obiettivo; a 40 hai maggiore competenza, esperienza, professionalità e preparazione. Elementi, questi, fondamentali per avviare un’impresa ma che possono arrivare solo con l’età e con i sacrifici: io mi sono fatto un ‘mazzo’ così per arrivare dove sono, non guardo la televisione per mesi pur di dedicarmi alla mia preparazione professionale, investo sulla mia formazione frequentando corsi anche all’estero”
– Chiara Burberi, founder di Redooc. Laurea con lode in economia alla Bocconi, docente alla stessa università, poi consulente e manager in McKinsey e in Unicredit, a 47 anni e con due figli ha mollato fama, successo e aspirazioni professionali per fondare una piattaforma di education online di materie scientifiche per i ragazzi del liceo. “Dopo 40 anni è bello svegliarsi la mattina e pensare di aver fatto qualcosa che possa restare ai propri figli e anche agli altri. Come potevo andare a dormire la sera pensando di non aver utilizzato le mie energie per il futuro dei giovani? Ma, vi prego, non chiamatemi startupper: in Italia fare impresa è considerato solo un tentativo, un ‘chissà se ce la farò’. Io, invece, sono sicura di quello che sto facendo, so che è un lavoro, che porterà dei risultati e che realizzerò i miei obiettivi. Io non ci sto provando, non mi sto buttando. Io ci riesco”.
– Massimo Bocchi, founder di Cellply. Ingegnere elettronico di Bologna, 36 anni, ha fondato la startup specializzata nella diagnostica molecolare che ha ottenuto un investimento di oltre due milioni di euro da Italian Angels for Growth (IAG), Zernike META Ventures e Atlante Seed. Il suo spirito imprenditoriale nasce durante un’esperienza in America, “un ambiente pro-startup, dove è facile essere contagiati dalla voglia di fare impresa” racconta. E dà un consiglio agli aspiranti imprenditori italiani: “Non guardate solo al digitale. In Italia c’è tantissimo rumore attorno alle startup digitali, ma abbiamo bisogno di altro: siamo fortissimi nella biotecnologia, nella moda, nel food e nel design. Bisogna imparare a fare impresa anche in questi settori“
– Il team di pptArt. È la prima startup italiana di crowdsourcing per l’arte. Propone opere su misura per il cliente, che può scegliere tra quelle realizzate ad hoc dagli artisti della piattaforma. A guidarla manager di esperienza ventennale nella finanza e nell’arte: Luca Desiata, dirigente dell’Enel e docente di Corporate Art al Master of Art della Luiss Business School di Roma; Chiara Compostella, storica dell’arte con ventennale esperienza internazionale di gestione di progetti nel campo dell’arte figurativa e un master in Arts Administration alla Columbia University di New York; Mircea Flore, esperienza ventennale come investment banker ed esperta finanziaria; Milena Marucci, architetto presso uno dei principali studi di architettura al mondo; Stefania Barbier , fotografa professionista, già consulente di strategia per Bai; e Giuseppe Ariano, Project Manager press il Ministero dei Beni Culturali.
– Antonio Ranaldo, presidente e fondatore di Chef Dovunque. Non appartiene alla schiera dei giovanissimi neanche Antonio Ranaldo, presidente e fondatoredella startup del food che ha brevettato i primi piatti della cucina nostrana bio, predosati e confezionati in un comodo kit, e che ha ricevuto un investimento di 1,2 milioni di euro da Vertis Capital e tre Business Angel. Grazie a lui, spaghetti aglio, olio e peperoncino, spaghetti pomodoro e basilico e pennette all’arrabbiata oggi valgono milioni di euro.
– Roberto Mircoli, amministratore delegato di Eco4Cloud. Lui è il classico esempio di ex top manager che entra nel mondo delle startup: 45 anni, per 13 anni a Cisco, ora è alla guida della startup che aiuta Telecom a risparmiare. Tl, infatti, ha firmato un contratto triennale con la neo-impresa fornitrice di una soluzione in grado di abbattere dal 30 al 60% la bolletta energetica (e le relative emissioni equivalenti di CO2) dei data center ad elevata virtualizzazione.
– Il team di GlassUp. Hanno tra i 40 e i 50 anni i componenti del team degli occhiali del futuro che costituiscono l’alternativa italiana ai Google Glass. Francesco Giartosio, modenese che si autodefinisce “startupper seriale”, un bresciano laureato in fisica e medicina psicosomatica, Gianluigi Tregnaghi, e il padovano Andrea Tellatin stanno realizzando occhiali a realtà aumentata che grazie al Bluetooth, diventano un secondo schermo dello smartphone e permettono di leggere email, sms o messaggi direttamente sugli occhiali.
– Pietro Carratù, ceo di Youbiquo. Non è giovanissimo neanche il ceo della società finanziata da Invitalia con Smart&Start che ha creato occhiali hi-tech a realtà aumentata. Il suo obiettivo è cerare prodotti su misura per i piccoli o per grandi aziende con particolari esigenze