Innovazione

Spin-up: cos’è quel “frammento” di impresa che sviluppa una tecnologia solo per fare l’exit

Arriva in Italia dagli Usa una nuova entità imprenditoriale che si concentra su una tecnologia commercialmente interessante, la mette a punto per il mercato e infine disinveste. Ecco le differenze con startup e spin-off. E i vantaggi per gli imprenditori

Pubblicato il 08 Giu 2016

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Adriano La Vopa

Negli Usa, patria delle startup, delle spin-out, delle spin-off, degli unicorni e dei nuovi modelli di business tipo Uber o Airbnb, da diversi anni si sente parlare di un nuovo modo di fare business, e spesso lo si adotta: lo spin-up.

Cosa sia una spin-up è presto detto. Fondamentalmente è un’azienda che non ha come obiettivo rendere un prodotto o servizio commercialmente appetibile, venderlo e poi fare una exit quando il momento è più propizio (startup). Né tantomeno il creare un qualcosa che la faccia crescere esponenzialmente per poi quotarla in borsa (unicorn). Una spin-up è essenzialmente una nuova entità imprenditoriale che sfrutta il potenziale di una tecnologia commercialmente interessante, la sviluppa fino a renderla adatta ad un certo tipo di mercato e poi fa la classica exit, auspicabilmente multimilionaria.

Il modello è quello cosiddetto “frattale”, ovvero basato su una strategia di crescita dell’azienda che avvenga in modo modulare, concetto che nasce proprio all’Università di Milano dal Professor Mario Benassi. Infatti l’azienda che sviluppa una determinata tecnologia, che però non sia strategicamente interessante, la può comunque sfruttare creando un “frammento” del business (tipo business satellite). Questo frammento consta appunto nella spin-up, cioè viene creata una vera e propria impresa, con tanto di struttura, brevetti, dipendenti e capitale. Una volta creata la si fa sviluppare come un normale business, fino a che la tecnologia raggiunga un TRL (Technology Readiness Level) interessante per applicazioni in un determinato settore industriale, o appetibili per un determinato mercato. Una volta raggiunto questo obiettivo, anziché creare il prodotto, e poi cercare di venderlo, o cercare investitori, e poi scalare il business, lo si vende direttamente, realizzando subito un profitto per qualcosa che non era appunto strategico in origine.

Volendo citare un paio di best practices, ci riferiamo a quanto riportato in un articolo di David H. Freedman, e quanto direttamente vissuto dal sottoscritto. La Scientific Generics è un’azienda che basa il suo intero business model sulle spin-ups, essendo comunque una società di consulenza scientifica. Infatti cercano quelle nicchie di mercato che sono sfornite di alcuni servizi, creano un’unità che sviluppa appunto il servizio più adeguato e quindi colmano il gap offrendo la tecnologia nei modi più disparati: licenza, newco, creando una spin-off, facendo partnerships o magari facendola morire se non più profittevole.

Altro esempio, in un mercato certamente meno attraente come quello dello stampaggio della plastica, ma sicuramente molto vicino ad una delle competenze eccellenti italiane, riguarda un’azienda che circa otto anni fa ha creato una nuova business unit per entrare in un nuovo mercato, quello dello stampaggio delle leghe metalliche. Questo percorso ha visto la nascita di una nuova impresa che servendosi delle stesse macchine per lo stampaggio della plastica (con degli adeguati accorgimenti per stampare appunto il metallo), e tutta l’esperienza dei tecnici, ha sviluppato ulteriormente la tecnologia di lavorazione portando a maturazione una tecnica in co-sviluppo con il produttore delle leghe metalliche. L’azienda è poi stata ceduta ad un produttore di macchinari per l’industria della plastica, che ha acquisito la tecnologia, il brand e i diritti brevettuali relativi. Questi due casi ci fanno chiaramente comprendere come il modello delle spin-ups non sia una pratica solo delle multinazionali, ma possa essere utilizzato in qualsiasi business, di qualsiasi dimensione, e con qualsiasi potenziale innovativo.

C’è da dire, però, che creare una spin-up non è un esercizio semplice. Infatti bisogna essere in grado di individuare il mercato giusto verso il quale orientare la tecnologia, con ricerche di mercato mirate, interviste ai potenziali clienti, benchmarking e tutte quelle metodologie ben conosciute per trovare il giusto target, settore e posizionamento. Poi bisogna inserire le persone giuste equilibrando competenze tecnico-scientifiche con altrettante manageriali e di business development. Infine bisogna creare una struttura adeguata e fare confluire i capitali necessari affinché l’impresa possa appunto svilupparsi e creare il prodotto o servizio preventivamente pianificato. Così descritto il processo sembra molto chiaro e lineare, ma certamente è altrettanto rischioso e impervio come quello per creare una startup o una spin-out. La differenza sta nel modello, appunto, e nella possibilità di monetizzare in tempi brevi queste tecnologie spesso già parzialmente sviluppate, altrettanto spesso già brevettate, ma non sfruttate per motivi strategici, ovvero i classici brevetti che impolverano nel cassetto.

Molte imprese, oggigiorno, hanno un potenziale tecnologico molto vasto, e spesso nascosto. Il numero di tecnologie potenzialmente fruibili è innumerabile, così come quello di prodotti e/o servizi. Quindi quale modo migliore del creare un’azienda, a sé stante, che abbia “in pancia” determinati IP (e brevetti), che riesca a sviluppare la tecnologia “di scarto” fino a renderla commercialmente interessante, e poi vendere tutto?

Ovviamente tale modello prevede di intendere il business in maniera molto opportunistica. Cioè gli investimenti nella spin-up devono avere il preciso scopo di sviluppare la tecnologia per un determinato settore e poi vendere non appena il valore dell’azienda è adeguato. In questo approccio le logiche del “pet project” o “pet business” non sono ammissibili, né tantomeno favorirebbero lo sviluppo della spin-up, quindi è un modello particolarmente innovativo e rischioso, attuabile solo da imprenditori altrettanto innovativi e illuminati. Certo questo mal si sposa con il modo di fare business italiano (ed europeo in genere), ma chissà che non si impari presto, e che oltre che sentir parlare solo di startup e pmi innovative non si inizi a sentire anche qualcosa riferentesi alle spin-up.

*Adriano La Vopa, Innovation Strategist, Innoventually, one-stop source per l’assistenza nella creazione, gestione, protezione, promozione, valorizzazione e monetizzazione delle soluzioni innovative

References:
Divided We Stand by David H. Freedman, Inc. Magazine, March 2005
Chapter 5, Open Innovation Essentials for Small and Medium Enterprises. Business Expert Press, 2016

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