Il dibattito

Smau, startup e Pmi basteranno?

La fiera si è aperta con diverse opinioni sulla ricetta anticrisi.“Le start up hanno entusiasmo, le pmi hanno dalla loro il mercato” affermano Alvise Biffi, presidente di Piccola Impresa Assolombarda e Pierantonio Macola, ad di Smau. Ma Andrea Rangone del Politecnico di Milano avverte: “il digital divide è ancora ampio”

Pubblicato il 23 Ott 2013

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“Non fate i timidi: innovate. Stay hungry, stay funky”. Si apre con un omaggio commosso a un grande innovatore italiano appena scomparso, Marco Zamperini, la cinquantesima edizione di Smau. E’ a lui, il funkyprofessor della comunità hi tech di casa nostra che sembra ispirarsi la fiera dedicata all’innovazione e alle tecnologie digitali che ha aperto i battenti a Fieramilanocity: crederci con ostinazione, cambiare, aprire la mente anche in un contesto difficile come quello della Grande crisi. A testimoniare il fermento che si osserva al salone sono innanzitutto i numeri: più di 50 le start up presenti, 200 protagonisti del settore e circa 500 novità tra servizi, prodotti e soluzioni.

Ed è proprio il mondo delle nuove realtà imprenditoriali ad alto contenuto di innovazione al centro dell’attenzione. Obiettivo: creare un legame forte tra start up e Pmi, l’unica opportunità considerata davvero efficace per far decollare una volta per tutte la Silicon Valley in salsa tricolore: “Per il rilancio dell’Italia le startup hanno un’importanza fondamentale”, dice l’amministratore delegato di Smau, Pierantonio Macola. “Trattandosi di aziende che raramente arrivano a diventare grandi e a quotarsi in Borsa possono essere il reparto di ricerca & sviluppo che manca al tessuto delle piccole e medie imprese attive sul territorio”.

L’impressione del numero uno di Smau è che nessun soggetto del sistema produttivo nazionale può rappresentare una via per l’innovazione “a portata di mano” quanto le start up e l’ecosistema che gravita attorno ad esse: “Sono un mezzo importante – continua Macola – per accedere alla ricerca industriale e contribuiscono ad allargare la rete di relazioni degli imprenditori. Molto spesso, inoltre, l’acquisizione di start up da parte di imprese più strutturate fa in modo che lo startupper diventi il delfino dell’imprenditore tradizionale generando un connubio che crea ricchezza”.

Realizzare una filiera tra start up e Pmi sembra essere la ricetta ideale. Ne è convinto anche Alvise Biffi, presidente di Piccola Impresa Assolombarda, in veste di ideale rappresentante delle imprese al convegno inaugurale del salone intitolato “Start up, innovazione e imprese: le Regioni protagoniste”. “E’ un matrimonio perfetto – afferma Biffi -, perché le start up portano entusiasmo, competenza tecnica e dimestichezza con le nuove tecnologie mentre le Pmi hanno dalla loro il mercato, la competenza gestionale, il network di relazioni e le risorse industriali e finanziarie: noi stiamo incoraggiando questo merge con varie iniziative”.

Peccato che la strada da fare sia ancora tanta, sia riguardo alla crescita delle nuove iniziative imprenditoriali che allo sviluppo delle infrastrutture digitali. Come fa notare Andrea Rangone, coordinatore Osservatori ICT&Management della School of Management del Politecnico di Milano, “l’innovation divide dell’Italia rispetto ai Paesi con cui competiamo è ancora molto ampio”. La spesa in IT in rapporto al Pil è dell’1,32% contro una media Ue-27 del 2,19%, la quota di Pmi che vende online è del 4% a fronte del 13% comunitario, la nostra spesa in ricerca & sviluppo rispetto al reddito totale è dell’1,26% contro il 2,01%. Senza contare che “se il confronto – aggiunge Rangone – si fa con i Paesi leader dell’Ue, ovvero i nostri diretti competitor, il gap si allarga ancora di più”.

Dove trovare allora le risorse per far decollare l’agenda digitale e rimettere in moto il Paese agendo su questa leva? “I soggetti che possono occuparsi di colmare questo divario – prosegue il coordinatore degli Osservatori ICT&Management del Politecnico – sono le Regioni, perché gestiscono i fondi Ue destinati allo sviluppo e conoscono bene il territorio”.

L’urgenza è impiegare tutto il denaro che l’Unione europea eroga per incentivare l’innovazione. Ribaltando le percentuali preoccupanti fornite da Rangone che vedono l’Italia al terzo posto per fondi concessi (la cifra monstre, sommando Fondo sociale europeo e Fondo europeo per lo sviluppo, è di circa 28 miliardi di euro) e al terzultimo posto per l’utilizzo con uno scarno 40,27%. Se l’Italia li sfruttasse tutti, avrebbe 17 miliardi in più da destinare alla crescita. Ma tant’è.

Fortuna che alcune Regioni sono virtuose, segno che se si vuole si può operare bene: nel migliore caso regionale in Italia, che Rangone non rivela “per riservatezza” e anche probabilmente per non far rimanere male le Regioni cenerentole, l’impiego dei soldi in arrivo da Bruxelles raggiunge percentuali vicinissime al 70%, ovvero gli stessi livelli su cui si posizionano i Paesi Ue più brillanti sotto questo profilo (Estonia, Lituania e Portogallo).

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