Punti di vista

ScaleUp, «Neanche noi inglesi siamo capaci di creare una nuova Google»

Neil Woodford, fund manager, rivela qualche crepa nel tanto lodato ecosistema britannico: «Siamo bravi a creare piccole società, ma pessimi nel concedere capitali a lungo termine». Inoltre molte exit sono precoci e il contributo delle università resta teorico. Così non può nascere un nuovo leader digitale globale

Pubblicato il 20 Set 2016

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Neil Woodford

Contrordine: la Gran Bretagna non è la terra promessa delle startup, o almeno non di quelle che puntano a crescere e diventare scaleup. La sorprendente affermazione arriva da un inglese, Neil Woodford, uno dei gestori di fondi più conosciuto in UK, che ha affermato in una recente intervista alla Bbc: “Siamo realmente pessimi nel concedere alle startup i capitali a lungo termine dei quali hanno bisogno”. Affermazione che sarà sembrata a molti in contrasto con l’immagine – ma anche con i risultati concreti – del Regno Unito, e in particolare di Londra, che, come è noto, è anche il regno dell’ecosistema delle startup nell’Unione europea.

I numeri parlano da soli. Per quanto riguarda le exit, secondo l’European Tech Exits Report 2015, l’anno scorso in Gran Bretagna ne sono state effettuate 82, cifra inferiore solo a quella della Germania, che ne ha contate 119. UK guida invece la classifica del venture capital nell’Unione europea con 594 operazioni di investimento su startup nel 2015. A gestire diversi milioni di euro per il finanziamento delle startup ci sono almeno tre grandi istituzioni finanziarie: Passion Capital, Balderton Capital e MMC Ventures. E tra le giovani società europee più promettenti ci sono in prima fila quelle inglesi quali, solo per citare qualche nome, HeySuccess, Kazooloo e SongKick. Vero è che, dopo la Brexit – il referendum che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea – sono sorti i primi timori di un indebolimento dell’ecosistema delle startup britannico e gli analisti hanno cominciato a chiedersi chi sarà la nuova capitale europea dell’innovazione.

Dopo Londra, quale sarà la nuova capitale europea delle startup?

In realtà, per il momento, non è ancora possibile fare previsioni né avere un quadro completo. Inoltre non tutti gli osservatori sono pessimisti sul futuro delle startup targate UK. Ma in questo caso il dibattito è incentrato sulle scaleup, ovvero le “sorelle maggiori” delle startup: un dibattito che non riguarda solo la società inglese e del quale si discute a livello mondiale. A ottobre, per esempio torna ScaleIT, il primo evento in Italia dedicato agli investitori internazionali interessati ad aziende innovative in fase di crescita in ambito digitale.

ScaleIT 2016, 15 scaleup a caccia di investitori internazionali

Tornando alle scaleup britanniche, Neil Woodford spiega che non è tutto oro quello che luccica. E non è certo uno sprovveduto, ma il Ceo del Woodford Investment Management, fondo di investimento che ha costituito nel 2014 dopo aver lasciato Invesco. A suo parere in Gran Bretagna gli imprenditori locali dell’hi-tech non stanno riuscendo a trasformare le proprie promettenti startup in multinazionali leader nel mondo. Insomma, non riescono proprio a dar vita al nuovo Facebook, Yahoo o Google. Un concetto che, per la verità, è stato più volte detto e scritto, ma Woodford e altri protagonisti dell’ecosistema britannico, intervistati dalla Bbc, cercano di approfondirne le ragioni.

“Sono inglesi quattro delle prime 10 università al mondo – dice – e 29 delle prime 200. Siamo bravi nella scienza e nella ricerca, e stiamo creando molte piccole società”. Ma, a suo dire, il problema emerge dopo la fase iniziale: gli investitori britannici sono investitori a breve termine e non sono in grado di supportare la crescita delle startup.

D’accordo con lui Rohan Silva, imprenditore tecnologico ed ex consulente di David Cameron quando era primo ministro, secondo il quale “il finanziamento alle startup è da tempo visto come un grande problema in UK. Ci sono due tipi di finanziamento: quello che viene da friends, family e fools, cioè le cifre che vanno dalle 50mila alle 100mila sterline, e in quel caso l’ecosistema UK ha fatto veramente la differenza. Abbiamo creato gli sgravi fiscali più generosi al mondo per quel tipo di investimento. La seconda tipologia è lo ‘scaleup cash’, il denaro che serve alle startup per scalare, cioè per crescere ulteriormente, e questa si sta dimostrando una grande sfida”.

Silva sottolinea che, in casi come questi, “il governo si deve assumere un ruolo importante nel fornire una parte di quel finanziamento, in particolare quando si tratta di ricerche in laboratorio e di supportare l’impresa nell’ingresso sul mercato”.

Uno dei problemi evidenziati da Silva è che gli imprenditori che vendono le loro società hanno una tassazione sui capital gain inferiore a quella esistente in altri Paesi. “Questo incoraggia a vendere presto – spiega – perché se uno decide di cercare di creare la nuova Google o la nuova Uber in Gran Bretagna verserà una tassazione più elevata al momento della vendita”. E chiaramente le exit precoci non favoriscono la nascita di grandi imprese.

Individua una pecca del sistema anche Hussein Kanji, co-founder di Hoxton Ventures: “Sarebbe stato difficile per una società come Uber nascere in UK, perché non penso ci sia una comunità di finanziatori in grado di dare all’azienda i miliardi di dollari che ha consumato per diventare internazionale”.

Altri sottolineano che in Silicon Valley c’è stato molto più tempo per perfezionare il progetto. Eileen Burbidge, che ha lavorato in Apple e Yahoo, e adesso è una venture capitalist basata a Londra, sostiene: “In Silicon Valley l’ecosistema è stato coltivato negli anni Quaranta e Cinquanta dal governo Usa e dall’industria della difesa, che originariamente era localizzata proprio in quella parte della California”.

Un’altra teoria sulla scarsa presenza di unicorni (le startup che superano un miliardo di euro di giro d’affari all’anno) riguarda la mancanza di supporto concreto da parte delle università. “Non siamo opportunisti, avventurosi e dotati di spirito imprenditoriale come altri” dice Annalisa Jenkins, alla guida di Dimension Therapeutics, società innovativa che si occupa di terapia genica.

“Finora – conclude – i docenti universitari e gli accademici hanno considerato un successo riuscire a pubblicare le loro ricerche nelle riviste più prestigiose. Non è mai stata veramente apprezzata e riconosciuta in termini culturali la capacità di trasformare le invenzioni in innovazioni, cioè in qualcosa che abbia concreto valore per le persone”.

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