Settimana scorsa la stampa internazionale ha annunciato il primo unicorno italiano: Scalapay
“Last Week in European Tech: Scalapay is Italy’s first unicorn” ribadiva Tech.eu come prima notizia nel suo weekly summary.
E in Italia, dopo qualche festeggiamento, è subito partito il treno dei “più realisti del re” che hanno, correttamente, individuato che Scalapay in realtà non è tecnicamente una startup italiana in quanto incorporata in Irlanda e “scalata” con capitali esteri. Mi limito a copiare a titolo di esempio il post dell’amico Gianmarco Carnovale.
La diagnosi è peraltro assolutamente corretta.
Scalapay è una dual company. Per una analisi completa rimando all’articolo dalla bravissima Luciana Maci.
Il punto è un altro.
L’Italia delle startup è fuori dalla mappa internazionale. Non per cattiveria, ma per sostanziale assenza di numeri. I nostri numeri di startup e scaleup e i nostri casi di successo sono semplicemente troppo pochi.
Nel momento in cui ce ne riconoscono uno, teniamocelo e siamone orgogliosi. Anche perché per quanto i founder (tra cui lo stesso Mancini) siano in realtà immigrati australiani, hanno aver scelto Milano come iniziale sede di Scalapay e lì hanno la sede operativa con più di 150 dipendenti.
E ringraziamo Mancini che abbia dato alla sua creatura un nome italianeggiante (nessuno glielo ha chiesto, mi sembra). Fatto che, a differenza di Depop e CommerceLayer, ha condizionato la stampa internazionale che non spacca sempre il capello in quattro per rigore di analisi.
Perché dovremmo farlo noi? Gaudeamus igitur …