Romano Prodi: «Crisi cinese? Le pmi si salveranno solo se fanno rete»

«La Cina è alle prese con l’ennesimo mutamento epocale che avrà ripercussioni per tutti» dice in un’intervista a EconomyUp l’economista ed ex premier. «Le nostre imprese ce la faranno se si rafforzeranno attraverso fusioni e consorzi. Ma serve anche un cambiamento culturale»

Pubblicato il 20 Ago 2015

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Romano Prodi

“Non è tanto la svalutazione dello yuan a dover preoccupare, ma lo scenario più generale di un’economia alle prese con l’ennesimo cambiamento epocale: se la Cina non farà determinate riforme, incontrerà gravi difficoltà nel percorso futuro. E le imprese italiane che esportano in Cina non potranno non risentirne. Come possono difendersi? Crescendo di dimensioni e studiando più seriamente il mercato, ma anche la cultura cinese”. Lo dice a EconomyUp Romano Prodi, economista, docente universitario, due volte presidente del Consiglio, dal 2008 presidente del Gruppo di lavoro Onu-Unione Africana sulle missioni di peacekeeping in Africa. Il personaggio è noto e la biografia particolarmente ricca, ma tra le note biografiche c’è anche l’insegnamento, dal 2010 a oggi, alla Ceibs (China Europe International Business School) a Shanghai, che lo ha portato a un’approfondita conoscenza della realtà cinese. In questa intervista esclusiva ci dice cosa ne pensa dei recenti sviluppi della crisi economica cinese.

Giorni fa lo yuan è stato ripetutamente svalutato dopo il crollo della Borsa di Shangai. Come si è arrivati a questo punto?

Le difficoltà attuali derivano, in generale, dal difficile passaggio da una politica incentrata su export e investimenti verso una più fondata sui consumi interni. Ma è difficile far consumare di più alla popolazione quando non viene garantito un sistema universale di sanità pubblica e di pensioni. Perciò la domanda interna stenta ad aumentare. C’è poi il problema relativo all’edilizia: negli ultimi anni è scoppiata una bolla immobiliare, di conseguenza la domanda di alloggi è calata e oggi l’invenduto è di dimensioni cospicue, quando invece l’edilizia è considerata uno dei settori portanti dell’economia. È un fenomeno visibile a occhio nudo: attraversando il Paese in treno mi è capitato spesso di vedere dal finestrino interi agglomerati di meravigliosi edifici completamente vuoti. Serve inoltre una riforma del sistema bancario, alla quale ancora non si è messo mano. Ed è preoccupante il grande indebitamento della periferia cinese: le province hanno deficit pesanti. È un quadro di difficoltà di lungo periodo. Per questo, personalmente, non sono rimasto impressionato dal ribasso in Borsa.

Eppure il crollo della Borsa ha scatenato il panico sui mercati finanziari…

Non mi spaventa un crollo del 30% da metà giugno, quando l’indice di Borsa è cresciuto di circa 150% in poco più di un anno. Si è creato il panico, è vero, ma poi è intervenuta la massima autorità bancaria cinese. Molti lo leggono come il primo degli elementi di preoccupazione, per me tutto sommato non lo è. Non si deve aver paura di cosa succede in Borsa, quella semmai è una conseguenza. Tra l’altro va ricordato che la percentuale di Pil investito nella Borsa in Cina è nettamente inferiore a quello che viene investito in Occidente ed è meno di un terzo del prodotto interno lordo investito negli Usa

Però a inizio agosto lo yuan è stato svalutato per tre volte consecutive in sole 72 ore.

La svalutazione, se la riteniamo compiuta, è modesta, pari al 4,65%. Le valutazioni serie si fanno sul 20%…Poi è stata fatta “a gradini”, una modalità decisamente nuova. A mio parere si è proceduto in questo modo per rendere manifesto al Fondo monetario internazionale che si trattava di un avvicinamento dello yuan al suo valore reale. Una specie di normalizzazione necessaria. E ho trovato interessante che il Fmi abbia reagito positivamente. Certamente la svalutazione sta inducendo i Paesi che stanno intorno alla Cina, a cominciare dal Vietnam, a fare altrettanto. Questo non produrrà una rivoluzione mondiale, ma certamente degli adattamenti a una nuova situazione. Tuttavia ritengo che le dimensioni della svalutazione non siano tali da evitare la fuga cominciata negli ultimi anni delle imprese ad alta intensità di manodopera e bassa tecnologia dalla Cina verso i Paesi vicini. Ormai la differenza di salario tra Cina da una parte e Vietnam, Pakistan o Bangladesh dall’altra è troppo alta.

Quali conseguenze per le imprese italiane che esportano in Cina?

Intanto va detto che le nostre esportazioni in Cina sono relativamente modeste rispetto ad altri Paesi: noi portiamo in Cina il 2,6% del nostro export, la Germania il 6,6%. Detto questo, certo, qualche conseguenza ci sarà, ma il nodo non è la svalutazione: le conseguenze più negative arrivano dal generale rallentamento dell’economia. Non avremo un prossimo futuro facile per le nostre esportazioni, questo è sicuro. E, anche in questo caso, le ragioni sono molteplici. Oltre al rallentamento economico, c’è da tener conto della battaglia moralizzatrice avviata dal governo cinese ormai da un paio di anni contro i beni di lusso. I vertici politici stanno conducendo una campagna anti-corruzione che mira a ridurre o azzerare gli sprechi dell’apparato pubblico e semipubblico, dagli acquisti di oggetti lussuosi quali per esempio i regali per i dirigenti, alle cene nei ristoranti di lusso. Risultato: i cinesi comprano beni di lusso quando vengono in Italia, ma in Cina è calata la domanda. Il settore luxury in Italia e altrove è in allarme da tempo per questo motivo.

La crisi cinese è più temibile per i grandi gruppi o per le pmi italiane? E cosa possono fare i piccoli per tutelarsi?

Di grandi gruppi italiani fondamentalmente non ne abbiamo più, in pratica sono stati quasi tutti acquisiti da stranieri. In Cina c’è rimasta solo Iveco. Quanto ai più piccoli, per evitare di finire nella spirale della crisi dovrebbero rafforzare le proprie strutture attraverso fusioni, imprese, consorzi, organizzazioni. Una volta si diceva: fare sistema. La dimensione delle nostre imprese non regge il mercato cinese. Poi bisogna mandare in Cina dirigenti che stiano là, conoscano la società cinese, si stabilizzino. Molto spesso le nostre imprese, soprattutto quelle di minori dimensioni, non sanno a quale santo rivolgersi quando decidono di lavorare con i cinesi. Esiste una diversità culturale che implica un cambiamento culturale. Cultura e dimensione: dobbiamo lavorare su questi due elementi .

Cosa accade e cosa accadrà in Cina al settore italiano del’Ict ?

Su questo fronte copriamo una fascia particolare: non operiamo molto nell’innovazione ad alto livello tecnologico, ma in tecnologie medio-alte relative soprattutto ai macchinari. La quota maggiore delle nostre esportazioni verso la Cina non è data dalla moda, come molti potrebbero pensare, bensì dalla meccanica strumentale. Macchine per imballaggio, per lavorare rame, marmo, legno, oro, per produrre piastrelle. Se si vuole una macchina strumentale di grande serie si sceglie una tedesca, ma se si ha bisogno di una macchina specializzatissima sarà italiana. Vero è che, a forza di esportare macchinari, i cinesi poi li copiano. Ma ci sono comunque gli aggiornamenti tecnologici, ogni anno servono nuovi macchinari. La media tecnologia è ancora molto importante, così come l’innovazione di processo. Poi c’è il bio-tech italiano che sta vivendo un risveglio: non ci sono grandi imprese ma c’è gran fermento. Una cosa è certa: la Cina si sta spostando velocissimamente verso i prodotti di tecnologia più elevata. Ma nello stesso tempo è di fronte a un nuovo bivio epocale: o fa le riforme e trova modo di migliorare la produttività delle imprese, o si trova in gravi difficoltà.

Ce la farà? E in quali tempi?

Io sulla Cina sono sempre ottimista, ma stavolta è molto più difficile. Le energie cinesi si sono dimostrate straordinarie in questi anni, quindi tendo ancora a essere fiducioso. Però è ancora tutto da vedere.

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