Una “bibbia” dell’informazione economico-finanziaria online come Business Insider si interessa all’ecosistema italiano e stila il 24 giugno una classifica delle undici startup più “hot” del nostro Paese. Bello. Wow. Peccato che le contraddizioni contenute nella lista siano un po’ di più delle gratificazioni che arrivano ogni qual volta una testata straniera autorevole si occupa dell’Italia e delle sue nuove imprese.
L’elenco, dall’ultima alla prima posizione, comprende queste undici realtà: Bemyeye (crowdsourcing per il controllo dei punti vendita), Circle Garage (produzione di oggetti wearable e IoT), Moneyfarm (piattaforma per gestione investimenti finanziari), Gipstech (geolocalizzazione indoor), Stereomood (app per connettere brani musicali e umore), Pathflow (business intelligence), Appsbuilder (sviluppo di app), Musixmatch (piattaforma di testi di canzoni), Arduino (schede elettroniche open source), Iubenda (privacy policy) e Yoox (ecommerce di abbigliamento).
E qui iniziano i dubbi e gli interrogativi. A cominciare dal più semplice: cosa intende James Cook, l’autore dell’articolo, per “startup”? Si può definire “startup” un’impresa come Yoox, che è attiva dal 2000, è quotata in Borsa e ha da poco chiuso un accordo monstre con il gruppo Richemont che prevede la cessione del 50% del capitale e la fusione con Net-A-Porter?
Certo, ci associamo a Business Insider nel considerare Yoox una realtà italiana di successo. Ma da qui a definirla “startup” per il semplice fatto che è una piattaforma di ecommerce e opera in ambito digitale ne passa.
Ammettiamo però per un attimo che il termine “startup” si possa usare per indicare le aziende che, a prescindere dalla loro data di nascita, operano adottando tecnologie innovative e seguendo modelli di business non tradizionali. A quel punto, non è un po’ ingeneroso considerare “hot” solo Yoox e non le tante imprese italiane che negli ultimi 15-20 anni hanno innovato e si sono imposte sulla scena globale, da Logitech a Technogym, solo per fare due nomi? E ancora, non è forse un po’ fuorviante inserire nella stessa lista Yoox, che ha totalizzato nel 2014 un fatturato di oltre mezzo miliardo di euro, con realtà che solo in pochi casi superano il milione di euro di ricavi?
E ancora, Arduino può essere ritenuta una startup? La scheda elettronica più amata dai maker di mezzo mondo circola dal 2005 e ci sono due aziende, Arduino LLC e Smart Projects – Arduino srl, che si contendono in tribunale lo sfruttamento delle royalty legate al marchio.
A quale delle due aziende si riferisce Business Insider, pur specificando che attorno ad Arduino sono nate diverse battaglie legali? Non sarebbe più giusto parlare di Arduino come di un progetto (nonché di un oggetto) “hot” anziché definirlo una startup?
Ma le incongruenze non finiscono qui. Per esempio, una delle startup menzionate nella lista, Stereomood, non esiste più. I fondatori dell’azienda che aveva sviluppato un’app per collegare la musica agli stati d’animo hanno ufficialmente abbandonato l’attività, come si legge in questo comunicato pubblicato lo scorso 26 febbraio. Il servizio è parzialmente ancora reperibile, il sito è “in costruzione” ma di fatto la società ha smesso di operare secondo il progetto originario: rappresentare il meglio del panorama startup italiano con un’azienda ormai scomparsa non fa fare i salti di gioia a chi ha a cuore l’ecosistema del nostro Paese.
Ultima domanda a Business Insider, che naturalmente resta al di là di queste sviste un portale autorevolissimo nonché una continua fonte di ispirazione: perché inserire nella lista solo aziende con più di due-tre anni di vita? Possibile che tra le startup attive dal 2014 in poi non ci sia nessuna degna di menzione?
È come se per il sito americano (in questo caso l’articolo si trova nell’edizione del Regno Unito) l’ultima generazione di startup made in Italy non esistesse. Invece, non è così: i risultati, se si guarda ad alcuni finanziamenti importanti (come per esempio, quelli ottenuti da Genenta e da Musement), alle oltre 30 nuove imprese “milionarie” del Registro di Infocamere e ai riscontri internazionali, restituiscono un quadro diverso.
Se proprio dobbiamo essere “provinciali” ed esaltarci per ogni minimo cenno all’Italia fatto da giornali e siti oltreconfine, almeno facciamolo con gli occhi (e la mente) aperti.