Hands on the ground

Quando cominci a pensare di lasciare la startup che hai fondato…

Non bisogna mai innamorarsi della propria idea. Ma siamo umani e le pene d’amore ci sono anche quando si fa impresa. Io per la prima volta mi sto confrontando con l’idea di affrontare altre battaglie. Non è una sconfitta, né una fragilità. È solo una nuova fase della vita, mia e dell’azienda

Pubblicato il 12 Giu 2017

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Oggi per la prima volta, come mai negli ultimi dieci anni, mi sono trovato a confrontarmi seriamente con l’idea di lasciare la società che ho fondato. Non che non c’avessi mai pensato, ma l’ho sempre fatto come quelle idee che si accarezzano con scarsa convinzione o come quelle cose che si dicono confidando che non accadano mai.

Mentre da una parte la parola d’ordine “business-is-business” deve imporre ad un imprenditore distacco e lucidità dalle cose, dalle idee e dalle persone, è pur vero che alla fine siamo esseri umani. Allora l’attaccamento (nei casi peggiori, quasi morboso) di un imprenditore alla semplice idea che ha avuto, al suo team, ai clienti, all’idea di fare crescere l’azienda in cui ha creduto e crede, per non parlare dell’idea di creare dei posti di lavoro che possano dare tranquillità alle persone, può fargli dimenticare il principio giuda: “un imprenditore non deve mai innamorarsi della propria idea”.

Ho sempre provato nella mia carriera professionale a ricordarlo: un buon imprenditore o un buon capo deve sempre guardare con distacco e occhio clinico e cinico quello che accade nella sua azienda, riconoscendo le storture e raddrizzando il ramo quando inizia a piegarsi.

In siciliano si dice che “l’arvulu s’addrizza quannu è nicu”, ossia l’albero si raddrizza quando è piccolo.

Però nel mondo reale, nella vita di un’azienda, capita che un capo possa impostare male le sue priorità, si rivolga alla crescita del business e perda di vista il ramo. L’idea della sua azienda piace, lui si innamora e come tutti gli innamorati perde la testa.

Perchè vedete, l’amore è una brutta bestia con cui bisogna essere capaci di trattare. Le pene d’amore, si sa, sono sempre le più difficili da gestire, soprattutto quando le emozioni prendono il sopravvento e la componente razionale latita. E se non si sa gestire la pena d’amore, il rischio è di perdere la testa.

Insomma, lui crede davvero che l’amore che è nato, possa risolvere tutti i problemi, che il suo impegno, l’entusiasmo (anche solo il suo) possa essere d’esempio per gli altri e da traino per i più giovani. Allora il capo non guarda più come cresce il ramo perchè è impegnato a guardare avanti, al futuro, magari confida nei suoi collaboratori affinchè tengano d’occhio il ramo.

A un bel momento, capita anche che il capo giri la testa e guardi di traverso il ramo. Magari vede che c’è qualche stortura, ma aspetta ad intervenire perchè al momento c’è il giardino da potare, da trovare i soldi per estendere il terreno e far crescere meglio l’albero.

Come tutti, quando amiamo siamo ciechi, non vediamo i dettagli, ci soffermiamo sulla bellezza delle emozioni che proviamo, dimenticando che poi, dopo l’entusiasmo, c’è la vita vera. E la vita vera è anche sofferenza, è errori, è malintesi, è parole non dette, invidie, rancori e alberi che crescono storti. Allora, proprio nelle difficoltà, si vede la forza di questo amore, perchè raddrizzare l’albero storto richiede impegno e concentrazione.

In ogni carriera professionale, arriva il momento di confrontarsi con la volontà di andare avanti, di affrontare altre battaglie, o di guardare altrove, di rimettersi in discussione, di accettare nuove sfide. Penso che questo valga anche per gli imprenditori. Ciò che gli anglosassoni hanno chiamato “exit strategy” e che viene richiesta ad ogni startupper, io l’ho sempre vissuta come la propensione a lasciare andare la propria azienda da sola, più che come “ancora di salvezza” se qualcosa dovesse andare male o se dovesse arrivare l’investitore. Ma una “exit strategy” non deve essere mai l’occasione per non ricordare cosa si è fatto, quanto si è dato all’azienda, quale è il contributo, insomma il valore del proprio lavoro. Il guardare ad una “exit strategy” non autorizza nessuno ad essere ingrato verso il capo per ciò che ha fatto o per ciò che ha insegnato, non autorizza nessuno a utilizzare le circostanze per regolare conti passati.

Oggi per la prima volta, come mai negli ultimi dieci anni, mi sono trovato a confrontarmi seriamente con l’idea di lasciare la mia società e non mi spaventa o mi dispiace… è solo una nuova fase della mia vita, non la fragilità di un soldato appena congedato dalla sconfitta Forse, indipendentemente da quali scelte farò, dall’ “exit strategy”, il mio amore per l’azienda che ho fondato è maturo al punto da poter rinunciare per il suo bene.

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