Rifiutare 250mila dollari e chiudere tutto, prima ancora di partire ufficialmente. Anche se la startup sta funzionando. Anche se i primi utenti sembrano soddisfatti e gli investitori ci credono. L’ha fatto Tim Romero, startupper statunitense nato a Washington D.C. e attualmente operativo in Giappone, dove ha fondato tre startup. Romero ha anche dato vita a Vanguard K.K., società che offre soluzioni software.
Stavolta però ha scelto di uccidere la sua creatura, ContractBeast, quando era ancora in fasce. “Ho fatto quello che nessun fondatore di startup dovrebbe fare – ha scritto su un post su Medium – mi sono arreso. Non è stata nemmeno una di quelle gloriose esperienze di apprendimento del tipo ‘fail fast and fail forward’, ‘fallisci velocemente e fallisci per andare avanti”. Dopo sette mesi di duro lavoro e due settimane prima dell’inizio del fundraising, avevamo una buona squadra, apprezzamenti dagli utenti della versione beta e oltre 250mila dollari di impegni finanziari. Ma ho staccato la spina”.
Quella di Romero può diventare una “lesson learned” per molti startupper. Come è noto, negli Stati Uniti, e in particolare nella Silicon Valley, il fallimento è considerata un’esperienza importante, perché offre l’opportunità di imparare dagli errori. Non è come nel resto del mondo, e specialmente in Europa, dove il fallimento di una startup o di un’azienda è considerato un grave errore e una macchia non piàù cancellabile nel proprio passato.
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Romero lo sa bene, infatti chiarisce che la sua non è stata un’esperienza di “fail fast”, ovvero una situazione in cui ha deciso rapidamente di far fallire una startup in difficoltà per evitare ulteriori danni e poter ricominciare daccapo. Il suo è stato uno “staccare la spina” quando ha capito che, anche se tutto sembrava filare liscio, non ce l’avrebbe fatta. Ma, appunto, quando si capisce che una startup non ce la farà? E da cosa si capisce? Ovviamente le circostanze possono essere le più varie e non esiste un viatico valido per tutti. L’esperienza di Tim Romero può comunque essere fonte di ispirazione per qualche collega che si sta ponendo la domanda: “Quali sono i segnali che la mia startup non ce la farà?”. Ma vediamo la storia punto per punto.
►Cosa era ContractBeast – Fondata lo scorso ottobre, proponeva un’offerta di Contract Lifecycle Management (Clm) attraverso una piattaforma Saas (Software as a Service). Il Clm copre la scrittura, la negoziazione, l’esecuzione e lo storage di contratti sia fisici sia digitali con uno stretto controllo di accesso. Consente anche, per esempio, di ricevere informazioni su quando i contratti stanno per scadere o di rinnovarli in automatico, oltre a indicare il responsabile della pratica. Il mercato globale del Clm vale circa 7,6 miliardi di dollari ed è estremamente frammentato, con oltre 80 società che si danno da fare per conquistare la loro market share. “E’ un grande mercato che sta ‘implorando’ disruption” osserva Romero. “Il mercato delle piccole e medie imprese non è servito in modo adeguato, quello delle grandi imprese viene proposto a prezzi esagerati. ContractBeast stava cercando di fornire un prodotto a basso costo senza necessità di consulenza. Ci saremmo focalizzati prima sulle pmi, poi sulle grandi aziende”.
►Qual è stato il segnale che ContractBeast non avrebbe funzionato – A gennaio scorso Tim Romero ha lasciato il lavoro per dedicare tutto il tempo sulla sua creatura: “70 ore e più alla settimana”. Il resto della squadra ha mantenuto il proprio impiego. La startup ha iniziato la versione beta all’inizio di marzo e le cose sembravano andare bene. Circa il 35% degli utilizzatori continuava a usare il sistema almeno tre volte a settimana dopo aver completato la registrazione. Ma qualcosa è cominciato ad andare storto. “All’inizio sembrava una cosa banale, ma mi ha infastidito” spiega Romero. “Nonostante il crescente apprezzamento, i nostri utenti stavano usando ContractBeast per creare una piccola percentuale del numero totale dei loro contratti”. È il campanello d’allarme. E, in un certo senso, l’inizio della fine.
►Perché ContractBest ha chiuso prima di cominciare – “Aveva quello che io ho ritenuto un problema non
risolvibile” sentenzia Tim Romero. Nelle due settimane successive ha fatto visita agli utenti beta, li ha osservati mentre lavoravano e li ha ascoltati. Chiedevano una serie di funzionalità in più. “Parlare con i clienti di funzionalità è rischioso” svela lo startupper. “Spesso ti danno idee concreti e utili, ma la maggior parte di loro non vuole quelle funzionalità. O almeno non le desidera così ardentemente. Quando sono insoddisfatti e non riescono a spiegare bene perché, spesso esprimono questa insoddisfazione con una raffica di richieste di funzionalità banali e non prioritarie. Non riuscivo a dormire: i miei utenti mi dicevano che amavano il mio prodotto e che avevano intenzione di usarlo in maniera estensiva. Ma non lo stavano usando molto e non riuscivo a capire il motivo”. L’illuminazione arriva alle 5 di mattina, mentre Romero sta sorseggiando un decaffeinato e rileggendo pagine e pagine di appunti. L’errore fatale diventa lampante ai suoi occhi. “ContractBeast forniva enormi vantaggi in termini di accuratezza ed efficienza, ma questi vantaggi arrivavano dopo mesi di utilizzo. Non c’era un beneficio immediato. Stavo combattendo la natura umana e stavo perdendo. Tutte le persone – continua lo startupper giurano che mangeranno le cose giuste e faranno ginnastica, ma la maggior parte non lo fa. Tutti sono d’accordo sul fatto che devono risparmiare per conquistarsi una sicurezza finanziaria per il futuro, ma la maggior parte non lo fa. I nostri utenti ci stavano dicendo che avrebbero usato ContractBeast per ottenere benefici nel lungo termine, ma la maggior parte non lo faceva. La natura umana fa schifo” è la sconsolante conclusione.
►Come è andata a finire – Il team ha fatto ulteriori tentativi, ha cercato di cambiare strategia, ha speso ore e ore in riunioni e brainstorming. Alcuni componenti della startup e alcuni investitori insistevano che la mossa migliore era prendere i finanziamenti e con quelli sviluppare una soluzione per risolvere il problema. Ma Romero ha deciso che era meglio lasciare i soldi sul tavolo e chiudere tutto. Perché non provarci? “Non ho paura del rischio e, come investitore, avrei detto a me stesso di prendere il denaro e andare avanti” replica Romero. “Ma il rischio è diverso se sei un investitore e se sei un founder. Dovevo decidere se l’avventura valeva un altro anno di 70 e più ore di lavoro alla settimana, perciò avevo bisogno di un livello di certezza maggiore rispetto a quello degli investitori, perché il mio tempo ha più valore per me che il loro denaro per loro stessi. Gli investitori scommettono in un portafoglio di aziende, io ho solo una vita da vivere”.