“Il biomedicale made in Italy si sta affermando nel mondo”: a dirlo è Paul Muller (nella foto), presidente di Niso Biomed, che ha vinto il Premio Leonardo Start-up, dedicato a realtà italiane nate da poco che si siano particolarmente distinte per innovazione, internazionalizzazione e impatto sociale.
Allevata nell’incubatore I3P del Politecnico di Torino, Niso Biomed, che ha sede nel capoluogo piemontese e attualmente conta 6 dipendenti, produce un dispositivo in grado di analizzare in tempo reale il succo gastrico prelevato durante gli esami endoscopici. In pratica, in soli 60 secondi, può fornire una diagnosi sulla presenza dell’Helicobacter Pylori e individuare potenziali fattori di rischio per tumori allo stomaco e al colon. Per questo ha vinto il Premio istituito lo scorso anno dal Comitato Leonardo in collaborazione con Ministero dello Sviluppo Economico e l’Agenzia Ice. Ma già in passato aveva fatto incetta di riconoscimenti, tra cui il premio ‘Start up dell’anno’ conferito da Pni Cube. “Dalla sua nascita nel 2009 – dice Muller – Niso Biomed si è creata un suo mercato internazionale e globale: i nostri strumenti sono presenti in varie strutture in Italia e nel Regno Unito, dove abbiamo una base importante. L’espansione internazionale sta procedendo in Portogallo, Spagna, Arabia Saudita e Israele dove abbiamo sviluppato rapporti con key Opinion Leader e attivato distributori”.
Allora è vero che, oltre ai settori tradizionali del made in Italy, anche il biomedicale si sta facendo largo nel mondo?
Direi proprio di sì. È molto quotato perché è un settore ad alto contenuto scientifico-tecnologico e il sistema della ricerca italiana porta all’estero tecnologie di alto livello. Perciò abbiamo l’opportunità di essere molto competitivi.
Ma non si dice spesso che la ricerca italiana ha pochi finanziamenti e i cervelli sono costretti a fuggire all’estero?
In Italia abbiamo ottime università che sfornano ottimi ricercatori, quindi ci sono grandissime opportunità come teste, idee e ricerche scientifiche. Il problema è che è veramente poco finanziata. Altri sistemi, come quello tedesco o americano, hanno una chance in più rispetto all’Italia: gli investimenti che permettono di tradurre in prodotto quanto viene dimostrato scientificamente a livello di ricerca.
Per fortuna ci sono realtà imprenditoriali come le vostre che si prendono i cervelli italiani e li mettono al lavoro…
Sì, a mio parere le startup, non solo quelle universitarie, sono un buon veicolo di trasferimento tecnologico. Sono piccole, flessibili, spesso hanno a che fare con tecnologie avanzate e hanno all’interno personale in grado di interagire meglio con il sistema della ricerca. È anche un ponte per il sistema delle grandi imprese.
Quali suggerimenti agli startupper italiani che hanno appena iniziato il loro percorso?
Oggi, durante la cerimonia di premiazione, è stata detta una frase di Virgilio che farò mia: “Vince solo chi è convinto di poterlo fare”. Io aggiungerei: devi lavorare per riuscire a essere convinto sempre di vincere. Cioè ti devi mettere nelle condizioni giuste, impegnarti e avere la testa dura.