La polemica

Monoidics, Facebook e l’inutile pianto sul talento perduto

La start up londinese acquisita da Zuckerberg è nata dall’idea di Dino Di Stefano, un italiano che è riuscito a battersi con successo sulla scena globale. Di questo dovremmo essere fieri. Per far sentire tutti quelli come lui apprezzati. E magari fargli venire la voglia di tornare

Pubblicato il 19 Lug 2013

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Il team di Monoidics, Dino Di Stefano è il secondo da sinistra

Facebook acquisisce Monoidics, start up basata a Londra ma con dentro due italiani, e subito scatta la chiave di lettura “nemo profeta in patria”. Certo, Dino Di Stefano è un siciliano (Biancavilla, provincia di Catania) che è andato a studiare a Pisa, ha fatto il dottorato in Olanda e poi ha trovato il suo spazio di ricerca a Londra, dove nel 2009 ha creato con un collega ricercatore Monoidics, che inventa un tool, Infer, che automaticamente trova i bug in altri software. Una soluzione enorme nei sistemi complessi che governano, ad esempio, i treni ad alta velocità o gli aerei.

La start up cresce e si internazionalizzano: con Di Stefano (ora Science Officer) e Cristiano Calcagno (Chief Technology Officer) si mettono in gioco il coreano Bee Lavender (Ceo) e il britannico Peter O’Hearn (Scientific Advisor). Avevano lo scorpo di creare ” il migliore software di analisi e verifica automatica e formale nel mercato“. E sembra che ci siano riusciti, visto che hanno convinto il coriaceo Mark Zuckerberg a investire una quantità di danaro per il momento sconosciuta per usare la loro idea e rendere Facebook ancora più preciso e potente.

Di Stefano è certamente un talento che è riuscito a esprimersi sulla scena globale, dove il colore della pelle, l’età e le appartenenze politiche contano nulla. E’ partito da un’idea apparentemente semplice, creare un software che scova i difetti degli altri software, e unendosi ad altri ha saputo trasformarla in un prodotto e, quindi, in un business.

L’Italia non l’ha capito? Forse. Ma anche se così fosse stato, chi avrebbe mai comprato la sua invenzione? E poi: invece di piangere sui talenti sprecati, perché non impariamo a scoprirli, conoscerli e valorizzarli anche quando sono talmente capaci e tenaci da vincere in un’area molto più competitiva di quella, protetta, di casa nostra?

Piuttosto che far sentire loro il distacco e l’ipocrita sorpresa, perché non ne facciamo i portabandiera di una intelligenza made in Italy in grado di muoversi senza frontiere? Inutile chiedere a Di Stefano e a quello come lui se vogliono tornare in Italia: è una domanda che non bisogna mai fare chi ha lasciato casa per studiare, ha varcato i confini per perfezionarsi e ha trovato altrove la sua realizzazione. Quel che conta è che gli expatriat di talento si sentano compresi e ammirati. E possano sentirsi orgoglio di essere italiani.

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