Luca Grilli, docente di Ingegneria Economico-Gestionale al Politecnico di Milano, è membro indipendente del Comitato tecnico preposto al monitoraggio degli effetti del Decreto Crescita 2.0 (legge 221/2012) sull’ecosistema delle startup.
Al momento in cui sto scrivendo l’orologio del registro delle imprese innovative segna 5161. Questo è’ il numero di startup innovative presenti nel nostro Paese. Difficile dire se sono tante (tanto meno se sono troppe), ma certamente, poche non appaiono. Il loro numero cresce in media al ritmo di 2 imprese al giorno, quindi è probabile che al momento di leggere, la statistica risulterà già obsoleta.
Quello che colpisce tuttavia della Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della normativa a sostegno delle startup presentata lo scorso dicembre, non è tanto il dato (probabilmente confortante) sulla natalità di questa tipologia di impresa nei nostri confini quanto i dati che vengono snocciolati relativi alle modalità di finanziamento delle startup ed al loro esiguo tasso di mortalità.
]Partiamo dal primo aspetto. Non vi tedierò sulla pochezza (per lo meno numerica) del segmento del venture capital (VC) italiano non solo rispetto agli inarrivabili Stati Uniti, ma anche con riferimento all’asfittico contesto europeo. Basta andare un po’ per google per rendersene conto. Quello che è interessante notare dalla Relazione 2015 è che circa il 35% degli investimenti, ovvero 28,2 Mil di Euro (con riferimento al 2013, ultimo dato disponibile) ha beneficiato degli incentivi fiscali previsti dalla legge 221. Si potrebbe dunque riassumere il VC italiano con la formula: poco e quel poco sussidiato dal settore pubblico non in maniera trascurabile.
Al dato sul VC fa da contraltare il dato sui finanziamenti bancari erogati alle startup tramite accesso al Fondo di Garanzia: 198 Mil. di Euro (al 30 giugno 2015). Che il nostro sistema finanziario sia banca-centrico non lo si scopre certo oggi, ma rimane evidente lo scarto in termini dimensionali con l’investimento equity di qui sopra. Il che fa sorgere una prima serie di domande. Deve dunque la politica industriale del nostro Paese ancora concentrarsi sul tentativo di rivitalizzare il segmento VC? Eventualmente quale modello di policy adottare? Può il governmental venture capital (vedi il fondo “Italia Venture I” gestito da Invitalia Ventures), seppur incardinato in una logica di co-investimento con partner privati sulla falsa riga del modello israeliano “Yozma”, rappresentare la strada giusta? Quale relazione esiste tra i due strumenti di policy implementati, incentivazione fiscale del VC ed accesso privilegiato al Fondo di Garanzia: complementarietà o sostituzione?
Queste sono solo alcune delle domande che sorgono sulla tematica finanziamento. Ma veniamo al secondo aspetto: dal 1° gennaio 2014 al 30 giugno 2015 sono state solo 59 le imprese che hanno cessato la loro attività. No, non è un refuso: 59 imprese. Le startup innovative italiane sostanzialmente non muoiono. O comunque muoiono (molto) meno rispetto a quanto ci si sarebbe potuto aspettare. Bisogna anche qua capire il perché. Il dato non è necessariamente positivo. Queste imprese dovrebbero infatti incarnare progetti imprenditoriali altamente innovativi, dagli esiti fortemente incerti, “fisiologicamente” destinate ad un alto tasso di fallimento. La stessa policy riconosceva questa necessaria quintessenza, prevedendo dei meccanismi di “fail fast” per consentire agli imprenditori una rapida ripartenza e comunque una minore vessazione in caso di fallimento.
Varie ipotesi si possono avanzare sul fenomeno della scarsa mortalità (peraltro non mutuamente esclusive). In primis, potrebbe essere che un buon numero di imprese, sfruttando anche i ridotti costi di entrata, sia solo formalmente attivo, ma in realtà non sia ancora entrato nel vivo delle operazioni. Ciò andrebbe a tipizzare una nuova forma di startup, una sorta di cellula dormiente dell’imprenditorialità. Non essendosi ancora confrontata con il mercato, l’impresa in questione non avrebbe ancora sufficienti riscontri per decidere “di che morte morire” o “di che vita vivere”. Una seconda ipotesi vorrebbe l’intervento pubblico effettivamente capace di “selezionare” nella demografia industriale le imprese nascenti dalla fibra particolarmente resistente e riconoscere solo a costoro lo status di startup innovativa. L’ipotesi è probabilmente più benevola rispetto alla precedente, ma nasconde anch’essa delle criticità (es. nel caso le cose stiano effettivamente in questo modo, quanto necessario è il sussidio?). Ad ogni modo sono solo due ipotesi, in mezzo a tante altre che si possono congetturare.
Rimane l’esigenza di capire meglio il modello di finanziamento più adatto per le startup innovative italiane e perché le startup innovative italiane ad oggi appaiono alla stregua di highlander immortali. Insomma…La verità, vi prego, sulle startup innovative italiane.