Strano lavoro quello del business angel, che si fa custode di una nuova impresa con l’obiettivo però di potersene disfare appena possibile e possibilmente con un buon profitto. Ancora più strano se a farlo è un imprenditore “vecchio stile” abituato a identificarsi con la sua impresa, persino a innamorarsene in qualche caso. Lo sa bene Giancarlo Rocchietti, tradizione sabauda e visione hi-tech, che dopo aver portato in Borsa e poi ceduto la sua Euphon, azienda multimediale nata da un piccolo laboratorio di incisione discografica, si è dedicato all’angel investing e oggi guida il Club degli Investitori, una rete di imprenditori piemontesi “vecchio stile” appunto che hanno deciso di scommettere sull’innovazione, sulla tecnologia e sulle startup.
Nel giorni scorsi il Club ha chiuso l’ultimo investimento del primo semestre 2015 (Whoosnapp), più precisamente un coinvestimento in cui per la prima volta il Club ha messo la quota più importante (150mila euro su 400), e ha premiato il suo business angel piemontese dell’anno: Stefano Papini, il socio che ha realizzato il sogno di ogni business angel: essere investitore unico di una startup comprata da un colosso internazionale (in questo caso MyTable finita in casa TripAdvisor per il lancio di TheFork Italia).
Questo è quanto fatto finora. A Rocchietti abbiamo chiesto di guardare avanti e raccontarci i programmi del Club per la stagione autunnale, anche se prima della pausa d’agosto potrebbe esserci ancora qualche sopresa,
Presidente, come sta il Club?
Abbiamo superato la fase da startup ad associazione matura: abbiamo più di 100 soci, negli ultimi 12 mesi abbiamo investito più di 2milioni di euro e adesso puntiamo più sulla qualità che sulla quantità
Che cosa significa?
Che stiamo cambiando metodo di lavoro. Non più push come prima, con un team che propone ai soci startup su cui investire. Adesso cominceremo a coinvolgerli sin dall’inizio della selezione dei progetti. E per fare questo ci siamo organizzati. Abbiamo classificato i soci per industry e competenze e li coinvolgiamo quando pensiamo che possano apportare valore. Del resto la forza del Club sono le persone.
Quali sono i vostri programmi di sviluppo?
Stiamo valutando iniziative a livello locale per far si che ci siano nuovi business angel: non ci si nasce, ci si diventa. Bisogna quindi fare formazione e allo stesso vorremmo recuperare sul territorio potenziali business angel che non sono ancora nel Club.
Sempre in Piemonte o a livello nazionale?
In Piemonte, perché la vera forza del network è che queste persone stanno cominciando a fare gruppo, non solo virtualmente. Si incontrano, in qualche caso diventano amici e questo rende il network unicoi. Non riusciremmo a farlo se fossimo sparsi per l’Italia. Questo però non significa che investiamo solo in Piemonte. Lo facciamo ovunque dove riconosciamo di avere le giuste competenze per analizzare i progetti e poi seguirli con successo.
Qual è la principale difficoltà che incontrate nel vostro lavoro?.
La valutazione delle startup. Per investimenti piccoli come i nostri nessuno può pagarsi consulenti, quindi dobbiamo fare affidamento sulle competenze dei soci e su alcuni analisti junior. Molto è lasciato alla pancia, al’intuito dell’imprenditore che pensa che quella sia un’idea vincente. Ma ancora più del progetto di impresa è motlo difficile valutare le capacità imprenditoriali di chi presenta idea. Per questo da settembre cominceremo a usare un test messo a punto dalla Fondazione HumanPlus guidata da Alberto Carpaneto, che in 30 minuti misura l’imprenditorialità di un soggetto. L’ho testato io ma anche il vicepresidente Bernardo Bertoldi e il risultato ci ha convinto…
Come vede il mercato italiano delle startup?
In questo momento noi business angel la pensiamo tutti allo stesso modo. C’è sopravvalutazione. C’è stata negli ultimi due anni una crescita del valore premoney (cioè precedente all’investimento) che non corrisponde a una parallela crescita della potenziale exit. Non so se sia giusto o sbagliato. So che le valutazioni sono cresciute di circa il 30% e sono accettabili solo se ritiene possibile alzare l’asticella del valore a cui pensi di poter uscire. D’altro canto se l’investimento non lo fai tu, lo fa qualcun’altro: Quindi spesso ci troviamo in situazioni difficili. Non parliamo di bolla, però. Per carità! Ma non vorrei che tra qualche anno sulla startup, sugli investimenti fatti ci fosse più delusione che soddisfazione.
Che cosa le piace di più e che cosa di meno negli startupper che incontrate?
Vorremmo vedere in tutti questi nuovi imprenditori la stessa carica e le stesse motivazioni che avavmo noi 15 anni fa e oltre. Il nostro modello è di chi mangia pane e cipolle per anni e si butta a capofitto sul progetto. Ci rendiamo conto che c’è una differenza sostanziale fra la nostra generazione e quella dei nuovi imprenditori: mai avremmo pensato di fare un’azienda per venderla dopo tre anni. Per noi era un progetto per la vita. Quindi dobbiamo capire questa differenza culturale. E che cosa vogliamo noi come business angel da loro.
Ma sono migliori o peggiori?
Non è questa la questione. A pane e cipolla ci siamo quasi, anche se adesso è pizza e birra. Ma noi business angel pretendiamo quasi che ad un ceto punto dovrebbero disamorarsi della loro impresa per fare ricchi noi. Contraddicendo in qualche modo la nostra visione e tradizione.
Non mi dica che dovreste rinunciare alle exit, che sono pure rare?
No, ma forse dovremmo pensare a un’altra via di uscita. Il collocamento in Borsa per esempio. A noi piace poco chi pensa solo di vendere. Noi recentemente abbiamo visto imprenditori che vogliono diventare grandi. E in questo caso la quotazione è la exit peerfetta. Perché permette di crescere continuando a restare nell’impresa. ento in Borsa. Scartiamo progetti che non hanno possibilità di diventare impresa.
Le quotazioni sono però ancora meno delle exit. Perché in Italia si fa fatica a trovare compratori?
Una delle cose che manca in Italia è l’assistenza verso la exit. Ci sono fin troppi incubatori, acceleratori ma mancano advisor che portino alla vendita. Come delle resto succede per tutte le aziende “vecchio stile”che, quando decidono di vendere, vanno da una banca d’affari o da un consulente per farsi aiutare a trovare un compratore.