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L’equity crowdfunding ha solo un anno e già arrivano le modifiche

Il Mise è al lavoro su un ritocco della norma: gli investors potranno finanziare anche fondi che investono in startup. Rientrerà in un mini-pacchetto sulle startup nell’ambito di un decreto collegato alla Finanziaria. Ma alcuni player del settore, tra cui Daniele Bernardi (Diaman Tech), chiedono ulteriori cambiamenti

Pubblicato il 29 Ott 2014

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A poco più di un anno dal battesimo, il governo sta lavorando a una modifica della normativa sull’equity crowdfunding, modalità innovativa di raccolta fondi online che l’Italia – prima in Europa – ha disciplinato attraverso una legge ad hoc e un successivo regolamento Consob entrato in vigore a luglio 2013. Come è noto questa modalità consente agli investitori di erogare finanziamenti alle startup innovative in cambio di quote nel capitale della società.

Come confermano dal ministero dello Sviluppo economico, si sta studiando una modifica della norma primaria per permettere ai finanziatori di investire non solo direttamente in startup innovative ma anche in fondi che investono in startup. In sostanza il ministero conta di rafforzare l’equity crowdfunding allargando la possibilità di raccogliere capitale a società di partecipazioni che investono prevalentemente in startup innovative. Non si tratta però di un provvedimento che riguarda esclusivamente l’equity crowdfunding: si tratterebbe di un mini-pacchetto sulle startup innovative che dovrebbe anche prevedere l’incremento di un anno, da 4 a 5, del limite temporale entro il quale poter essere considerata startup innovativa dalla data di costituzione della società. Il pacchetto dovrebbe essere contenuto in un decreto legge collegato alla Legge di Stabilità. I dettagli sono però ancora in via di definizione.

Qualcosa cambia, insomma. Ma, secondo vari player del settore, altre cose dovrebbero cambiare nell’equity crowdfunding. Di fatto, da quando è stata emanata, non sono poche le voci che si sono sollevate per chiedere modifiche alla normativa. A tutt’oggi i finanziamenti raccolti dalle startup hanno superato il milione di euro, cifra che mette insieme i fondi rastrellati dalle prime tre piattaforme autorizzate da Consob. Finora di piattaforme ne sono state autorizzate nove. I numeri parlano da soli, non si può oggettivamente dire che sia stato un gran successo. Allora cos’è che non va? EconomyUp l’ha chiesto a Daniele Bernardi, amministratore unico di Diaman Tech, società veneta fornitrice di applicativi software per la finanza che ha tagliato il traguardo dell’equity: è stata infatti la prima in Italia, e quindi in Europa, ad aver raccolto capitale di rischio secondo questa modalità, chiudendo con successo un deal di 147.000 euro.

La storia di Diaman Tech, pioniera dell’equity crowdfunding

Bernardi ha le idee chiare: “Bisogna estendere la possibilità di finanziarsi con l’equity a tutte le startup, dematerializzare le quote e ridurre drasticamente la burocrazia”. Solo così, sostiene Bernardi, si possono davvero aiutare i giovani startupper a ingranare.

“La prima cosa da fare – spiega l’imprenditore – sarebbe estendere la possibilità di ricorrere all’equity crowdfunding a tutte le startup, non solo a quelle che rientrano nell’elenco delle startup innovative. Penso alle tante imprese artigiane, magari a quelle che producono oggetti d’arte in legno e non possono certo definirsi innovative ma rappresentano una tradizione da conservare e tramandare. Incentiviamo i giovani a lavorare anche in questi settori, non solo nella tecnologia: con la disoccupazione giovanile al 40% in Italia, non possiamo permetterci di fare distinguo”.

L’altro punto che, secondo Bernardi, andrebbe modificato nella legislazione vigente riguarda le quote azionarie. “Occorre dematerializzarle” sostiene, per poi spiegare in pratica cosa questo potrebbe comportare. “Quando Diaman Tech ha avviato la raccolta fondi sulla piattaforma Unicaseed ci sono state persone che hanno acquistato quote per soli 490 euro. Quando vorranno venderle, saranno obbligate a ricorrere a un notaio per effettuare il trasferimento delle quote: un’operazione che in media costa intorno ai 350 euro, se non di più. È palese che l’investitore ci rimette soldi, invece di guadagnarci”. Cosa fare allora? Secondo Bernardi bisognerebbe procedere come si fa normalmente per le operazioni in Borsa: “Vendere e acquisire quote attraverso la banca e senza l’intervento di un notaio”.

Terza richiesta: semplificare il processo. “Oggi chi vuole investire in equity crowdfunding – dice – deve sottoporsi a verifiche, firmare un contratto ecc. ecc. Negli altri Paesi europei è richiesto un semplice versamento con carta di credito. Ha fatto benissimo il governo a regolare la materia, ma il regolamento deve essere moderno, deve adeguarsi a un mondo veloce, come quello di Internet. Invece in base all’attuale regolamento è come se avessero voluto inserire un contratto cartaceo di 30 pagine dentro un iPad. Servono tonnellate di carta, occorre aspettare che arrivi a casa il contratto, firmarlo, rispedirlo via posta. Assurdo nel 2014”.

Per Bernardi un regolamento così stringente è stato pensato per tutelare al massimo l’investitore, ma – osserva – “l’obiettivo non deve essere tutelare chi investe, che è consapevole del rischio e sa benissimo che può andare bene una volta su dieci. A dover essere tutelati e incentivati sono i giovani che hanno bisogno di capitali per cominciare, e ne hanno bisogno in fretta, con modalità rapide e innovative”.

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