In siciliano si dice “Cchiù longa è a pinsata, cchiù grossa è a minchiata”. Per i continentali, questo detto è la semplificazione del principio metodologico espresso dal Rasoio di Occam, secondo cui è inutile formulare più ipotesi di quelle strettamente necessarie per spiegare un dato fenomeno quando quelle iniziali siano sufficienti. In poche parole, sfirniciarsi (sempre per voi continentali, pensare intensamente e continuamente) su un problema e tentare di esplorare tutte le possibile ipotesi e conseguenze porterà progressivamente a commettere errori ancora più grossi o comunque a non risolvere il problema.
È dei giorni scorsi la notizia dell’apertura del museo del fallimento di Helsingborg, in Svezia, che espone prodotti finiti e potenzialmente vincenti, spesso prodotti da aziende di successo, che però non hanno avuto la capacità di emergere sul mercato, quando non hanno addirittura determinato la fine della stessa azienda produttrice.
Ad esempio, ci sono le Lasagne della Colgate (?!), pasta pronta che forse voleva ricordare anche di pulire i denti dopo aver mangiato. Oppure c’è “I’m back and you’re fired”, versione di Donald Trump del Monopoly lanciata 13 anni fa. Ma ci sono anche i Google Glass, oltre a prodotti ormai dimenticati o mai visti di Apple, Kodak, Sony, Coca cola e Harley-Davidson (sapevate che avevano lanciato un profumo ispirato alle moto? Boh!)
In questo ultimo periodo, ho visto un certo numero di articoli sul fallimento, sul fatto che senza non si può aver successo, che il rifiuto di accettare il fallimento non permette di apprendere e non crea le basi per il futuro successivo.
Startup Italia ha pubblicato un articolo sul fallimento del modello di BeMyGuru ed è stato creato un intero portale per affrontare il tema del fallimento delle startup. Tutte iniziative giuste, ritengo, perchè la vita di un’azienda è costellata di fallimenti, di scelte errate e di inversioni di marcia. Questo è ancora più vero quando l’azienda è appena agli inizi.
Eppure confrontarsi con il fallimento non è semplice.
Insomma, provate a pensare che nostro figlio torni da scuola dicendo di essere stato bocciato nei termini: “Sai, mamma, i miei voti non mi hanno permesso di essere promosso quest’anno, ma ho posto le basi per il successo dell’anno prossimo”. Non so voi, ma mi sembra un po’ complesso da digerire.
O provate a immaginare un politico che dopo le elezioni dichiari. “No, non riuscire a conquistare una maggioranza non è in mancanza: è un passo avanti verso il successo!” (ok, questo magari riesco ad immaginarlo con un politico italiano).
James Dyson (forse uno dei più geniali inventori e imprenditori dei nostri giorni) ha detto: ‘Godetevi il fallimento e imparate da esso. Non puoi mai imparare dal successo”.
Guardando ai miei giorni, è difficile dire se sto imparando dai miei fallimenti. Di sicuro, nonostante il potere educativo, ogni fallimento contiene in sè una componente di paura, di distorsione della percezione delle nostre capacità e di alterazione della percezione della realtà (ci fa apparire ogni obiettivo meno raggiungibile rispetto a prima).
Parlare di fallimenti (nella vita personale come nella vita professionale) ci rende “impopolari”.
Quando il fallimento coinvolge anche altre persone, il semplice fatto di parlarne alla fine ci rende inopportuni o addirittura diffamatori. La cultura del fallimento non ci appartiene, perchè fallire equivale a riconoscere gli errori commessi. Ciò non si sposa con l’immagine che vogliamo dare di noi stessi, con la maschera che indossiamo ogni giorno. Forse quello che dovrei fare è aprire il mio personalissimo museo del fallimento.
So di non essere un membro perfetto di una famiglia perfetta, so di non essere un perfetto amico, so di avere fallito in alcuni fasi della mia carriera professionale, so di non essere un perfetto membro della mia comunità, eccetera. Sono molto molto distante dall’essere perfetto e molto molto bravo a commettere errori, anche belli grossi.
Sono però convinto che esporre i propri fallimenti, parlarne apertamente, ci permette di approfittarne e riprovare. Proprio come i politici devono trovare un modo di andare avanti dopo disastrosi risultati elettorali o proprio come gli inventori e le aziende che raggiungono il successo dopo che un prodotto è andato storto o non ha venduto.
Ha detto Samuel Beckett nella novella Worstward Ho: ‘Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better.’
Si dice che “la preparazione è la chiave del successo” (cit. Alexander Graham Bell) ma preferisco la frase di Benjamin Franklin che ha affermato: “By failing to prepare, we are preparing to fail“.
Io voglio arredare il mio museo personale del fallimento per renderlo veramente museo di preparazione e, se possibile, ridurre al minimo le future minchiate figlie di longhe pinsate, anzi, scusate, applicare al meglio il Rasoio di Occam.
P.S. Grazie a un amico che ha passato la sua serata ad ascoltarmi e a farmi comprendere, in modo crudo e diretto, quello che c’è in queste righe.