Claudio Storelli, trentunenne ideatore e fondatore della Storelli Sports, società che produce indumenti protettivi per i giocatori di calcio, ha un curriculum che intimorisce. Arrivato negli Usa a 15 anni con uno scarsissimo inglese compensato dalla tenacia e dalla voglia di imparare, si iscrive a 16 anni all’università e si laurea alla Stanford University a 20 in Economia e Filosofia, discutendo la sua tesi con il Nobel per l’economia Kenneth Arrow.
[L’italiano che ha conquistato la Silicon Valley portandosi il team “da casa”]
Segue un master in legge alla Columbia Law School, concluso a 23 anni. Poi arrivano il lavoro da manager consultant alla società McKinsey e quello attuale da senior manager da Bloomberg L.P. In mezzo, tanti progetti con la multinazionale fondata nel 1981 dall’ex sindaco di New York “che stanno tutti prosperando”, racconta Storelli.
[Map2App: la nostra mappa tra Italia e Silicon Valley]
Qualche altro al di fuori di Bloomberg non è andato a buon fine, “ma si è comunque rivelato un’ottima lezione di vita perché si impara tantissimo dagli errori”. E ovviamente la Storelli Sports, fondata tre anni fa, a 28 anni, insieme a Jing Liang e salita alla ribalta quando Wayne Rooney, centravanti del Manchester United e della nazionale inglese, si è mostrato in campo sfoggiando il caschetto protettivo griffato Storelli.
Oggi i prodotti che ha ideato si vendono in Usa, Australia, Canada, Colombia e Italia e da poco l’imprenditore ha lanciato una raccolta fondi con una piattaforma londinese di crowdfunding per far conoscere la sua creatura al mercato europeo e creare attenzione attorno ai danni fisici, in larga parte evitabili sostiene Storelli, che ci si può procurare facendo sport.
Ma se il primo sentimento che si prova dopo aver saputo tutto quello che Claudio ha creato e conquistato in un Paese straniero “senza famiglia o amici di vecchia data a fianco” è una sconfinata ammirazione, poi arriva anche un po’ di rabbia. Perché è un altro figlio che l’Italia non ha saputo accogliere, stimolare e far crescere. “Le opportunità accademiche e professionali che ho avuto qui negli Usa sono state enormi”, racconta Storelli.
[Roberto Bonzio: “Fare il cantastorie mi ha cambiato la vita”]
“Ho avuto modo di vivere in California e poi spostarmi nella città più affascinante e divertente del mondo: New York. Ho potuto studiare a Stanford e alla Columbia e poi lavorare in società leader nel loro settore come McKinsey e Bloomberg. E tutto ciò partendo dal nulla perché non conoscevo nessuno negli Stati Uniti”.
A parità di condizioni di partenza, in Italia sarebbe stato possibile? “Il sistema statunitense è creato per dare opportunità a quelli che si danno da fare – continua – ed è proprio la meritocrazia che mi ha fatto rimanere. Avevo la consapevolezza che il sudore e i sacrifici avrebbero dato frutti”. Le difficoltà, come si può immaginare, ci sono state: oltre alla lontananza dagli amici e dai luoghi che ami “quella di imparare la lingua in modo da essere credibile davanti a persone di un certo livello professionale. Qui non è la
nazionalità a spaventare, ma piuttosto il fatto che tu non riesca a comunicare in modo efficace. Un leader deve essere un ottimo comunicatore ed è difficile che le persone siano ispirate e motivate a seguire qualcuno che non si sa esprimere in modo eloquente e convincente”.
Qualche stortura di naso Storelli l’ha avuta, solo inizialmente, anche riguardo all’accento: “Ci sono grandi vantaggi – scherza – come il fatto che se inizi a parlare con una bella ragazza in un bar, ti rendi subito interessante e simpatico, ma nel mondo della finanza può – anche se nel subconscio – essere preso meno sul serio di un altro, quello tedesco in primis”.
[Due italiani all’origine del più grande finanziamento di sempre negli Usa]
Eppure Storelli non si è mai fatto frenare né dall’inflessione italiana, che ormai è solo un ricordo, o tantomeno dalla giovanissima età: “Non è l’età che ferma le persone, almeno qui. Io sono arrivato da underdog, senza famiglia o amici, e potevo solo mettere giù la testa e lavorare. Così sono entrato a Stanford a 16 anni. Sono sempre stato il più giovane in ogni ambiente di lavoro o a scuola, ma questo non è mai stato importante. Ho imparato che vieni accettato solo se ti sai comportare da persona che appartiene al gruppo in cui sei. Il ciò non vuol dire essere arroganti o fingere di essere più vecchi, ma ammettere quello che non sai e giocarti le carte che hai senza paura”.
[Faremo crescere così l’Italia negli Usa]
Come l’idea della Storelli, che a Claudio è venuta proprio giocando a calcio, dalla sua esperienza di portiere. Nel tempo si è fatto male più volte, “in modo stupido e prevenibile”. Da qui l’idea di creare una marca di prodotti dedicati esclusivamente a ridurre il rischio di infortuni sportivi. Oggi la Storelli produce e commercializza una vasta gamma di prodotti, ma “quello che si vede è solo un angolino del progetto a lungo termine”, continua l’imprenditore. “Non stiamo creando un marchio di nicchia per il calcio, ma piuttosto le basi per la prossima generazione di attrezzature sportive. Sono così contento di lavorarci su che a volte non mi va di andare a dormire”.
Il desiderio di investire in Italia ci sarebbe spiega Claudio, ma le difficoltà che incontra una startup o un imprenditore che vuole investire nel nostro Paese non gli consentono di farlo: “Gli Stati Uniti mi hanno reso la vita più semplice in vari modi: qui ci sono poche formalità, è facile assumere e licenziare. Il lavoro è visto come qualcosa che ti guadagni e ti devi meritare, non un diritto. Il mercato americano è molto grande e piuttosto omogeneo, permettendoti di fare business con clienti in California come in Texas o New York. Sono presenti molti fondi di venture capital e banche disposte a finanziare piccole aziende e tanti giovani con spirito imprenditoriale pronti a lasciare un lavoro fisso per costruire un programma entusiasmante”.
[Il biotech italiano piace negli Usa]
“Dalla mia carriera di portiere ho imparato una grande lezione che applico ogni giorno al mio lavoro”!, conclude Storelli. “Se entri in campo pensando che ti potrebbero segnare tra le gambe vivrai la partita con ansia, senza divertirti e senza giocare bene. Ogni tiro è vissuto con paura. Ma se entri in campo conscio di ciò ma eccitato dalla possibilità di fare grandi parate e far vincere la partita alla tua squadra… a quel punto ogni tiro è una sfida divertente, e non vedi l’ora che te ne arrivi un altro”. Una lezione, e una storia, utile per tutti.