Una startupper italiana di 29 anni, con esperienze internazionali alle spalle, che fonda una società del deep tech, Amity, in Thailandia con un altro enfant prodige dell’imprenditoria innovativa, si prepara alla conquista dell’Europa partendo da Londra e poi decide di aprire una sede a Milano: è la storia di Francesca Gargaglia, perugina d’origine, milanese durante gli anni dell’università in Bocconi e poi cittadina del mondo. La dimostrazione che anche l’Italia è in grado di produrre autentici talenti imprenditoriali under 30. Se poi il talento è una donna, in un Paese in cui solo per il 12% delle startup viene costituito da esponenti del sesso femminile, la storia diventa ancora più singolare.
Singolarità che contrasta con l’atteggiamento di Francesca: volto acqua e sapone, spontaneità e una buona dose di umiltà (una giovane co-founder e CCO di una scaleup che ha già raccolto 30 milioni di dollari potrebbe anche rischiare di montarsi la testa), Gargaglia racconta a EconomyUp la sua ancora breve ma intensa vita. E spiega perché Amity, piattaforma tecnologica leader per la creazione di social network e comunità digitali, ha deciso di scommettere sull’Italia, e in particolare su Milano.
Esperienze internazionali, una spinta verso l’imprenditorialità
Padre dirigente e madre medico (“Ho impegnato mesi per spiegare ai miei genitori che lavoro faccio” scherza lei), Francesca lascia la provincia umbra per studiare legge a Milano. Ma non ci resta per molto: durante gli anni di studio ha occasione di fare esperienze all’estero. Una in particolare le rimane nel cuore: un’estate trascorsa per conto di un’associazione in una favela di Salvador De Bahia, in Brasile. Terminata l’esperienza di volontariato, torna alla realtà lavorativa occidentale: un posto nell’ufficio di Milano di PricewaterhouseCoopers, dipartimento legale. “Ma scalpitavo, volevo andare a vivere fuori” dice ora lei. Coglie al volo l’occasione quando il team di PwC le offre di trasferirsi in Africa per aiutare le aziende europee a espandersi nella regione sub-sahariana. A soli 23 anni Francesca Gargaglia prende armi e bagagli e si trasferisce a Johannesburg, dove resta per più di 3 anni. È qui che avviene l’incontro decisivo con un suo quasi coetaneo che cambierà completamente il suo destino.
L’incontro con il mondo delle startup
In realtà i due si conoscono prima virtualmente, attraverso amici comuni, in occasione di un progetto. Dopodiché si incontrano fisicamente in Sudafrica. Lui si chiama Korawad Chearavanont, è thailandese, ha un anno meno di lei e in Thailandia è un personaggio: figlio del CEO del gruppo Charoen Pokphand, la più grande impresa privata del Paese asiatico, ha fondato la sua prima startup a soli 18 anni, mentre terminava il liceo, raccogliendo 3 milioni di dollari. Per questo motivo è ai primi posti nella lista internazionale dei founder più giovani al mondo che hanno ottenuto finanziamenti superiori al milione di dollari.
“Quando ho conosciuto Korawad – rievoca Francesca – ho visto l’entusiasmo nei suoi occhi e sono rimasta affascinata dal mondo delle startup. Così mi sono lasciata convincere a trasferirmi a Bangkok”.
Un Paese che, a sorpresa, è terreno fertile per le imprese innovative. Il colosso Rocket Internet ha pianificato ed effettuato numerosi investimenti nel Sudest asiatico, Thailandia compresa. Inoltre – un dato che non tutti gli occidentali conoscono – questo Paese detiene il record mondiale di ore trascorse davanti allo schermo di un cellulare. Significa che ormai tutti fanno tutto da mobile. E questa è una gigantesca opportunità per chi lavora con le tecnologie digitali.
La piccola Eko, la grande True e la svolta grazie all’open innovation
L’azienda del giovane startupper asiatico, che all’epoca si chiamava Eko Communications, sviluppava enterprise chat, in pratica strumenti di chat interne per aziende. Un’area in cui si muovono tanti grandi competitor, da Microsoft a Facebook. Ma Eko riesce a fare il salto di qualità grazie…ai Mondiali di calcio.
“Quasi per caso – spiega Francesca Gargaglia a EconomyUp – una delle aziende che utilizzava il prodotto, la True, sorta di Vodafone thailandese, ci chiede nuove funzionalità per una sua app di entertainment che consente la visione in streaming di partite di calcio ed eventi sportivi. Nel 2018, infatti, la società aveva vinto i diritti per trasmettere i Mondiali di calcio in streaming in Thailandia. In particolare l’azienda cercava nuove funzionalità per garantire l’esperienza digitale al pubblico più giovane: voleva lanciare una public chat che consentisse alle persone che guardavano la stessa partita di parlare e confrontarsi tra loro. Una soluzione con un livello tecnologico difficile da raggiungere, perché si trattava di milioni di utenti coinvolti… A True piaceva la nostra chat interna, perciò ci hanno chiesto se fosse possibile prendere quella funzionalità, spacchettarla e trasformarla in modulo da aggiungere all’app. E noi l’abbiamo fatto”.
Risultato: oltre 10 milioni di utenti connessi per ogni partita. Un successo, al punto che True vuole che Eko diventi una funzionalità permanente della app. “Ci hanno chiesto – prosegue la startupper – la possibilità per gli utenti di avere un profilo, condividere aggiornamenti e foto, il live-feed basato sulle preferenze ecc. ecc. Alla fine abbiamo dedotto che questo era il nostro vero prodotto: funzionalità pre-costituite che possono essere aggiunte a qualsiasi app o sito pre-esistente nel giro di poche settimane, in modo da aiutare chiunque abbia un’app a trasformarla in una comunità. Da lì nasce Amity”.
La nascita di Amity
La società viene fondata nel 2020 nel Regno Unito da un team cosmopolita composto, oltre che da Korawad Chearavanont e Francesca Gargaglia, da Arthur Kraisingkorn e dall’americano David Zhang. La sua missione: rompere l’egemonia dei social network e rendere accessibile a chiunque la possibilità di creare comunità digitali. In appena due anni raccoglie 30 milioni di dollari in finanziamenti da investitori quali 500 Startups, Gobi Partners, East Ventures e SMDV. “Una crescita folle” commenta Francesca, accelerata anche (ma non solo) dalla spinta alla digitalizzazione causata dalla pandemia. Ad oggi Amity collabora con centinaia di grandi aziende in tutto il mondo e si sta espandendo molto velocemente. Solo nel 2021, l’azienda ha registrato una crescita in termini di ricavi di oltre il 170% rispetto all’anno precedente. L’azienda contra oltre 230 dipendenti di 27 nazionalità.
QUI un video su come funziona Amity
Perché Amity punta su Milano
La scaleup è incorporata come struttura legale a Londra, e il suo ufficio più grande è a Bangkok, dove ci sono circa 180 persone. Ma serviva un headquarter europeo. Francesca ironizza sulle varie “lotte interne” per designare la nuova sede: alla fine ha vinto lei e la scelta è caduta su Milano. Un ufficio nei pressi dell’Arco della Pace, inaugurato da pochi giorni. Perché proprio la metropoli lombarda? “Non ha niente da invidiare ad altre europee – ribatte l’intervistata – è ben collegata con voli aerei diretti ai nostri uffici di Bangkok e Miami, e inoltre le persone che dovevamo trasferire da quegli uffici sono state tutte molto contente di andare a vivere in Italia. Aggiungiamoci i benefici fiscali che lo Stato italiano ha introdotto per attrarre talenti dall’estero. Vogliamo dimostrare che si può fare deep tech e innovazione anche in Italia, anche se la burocrazia ogni tanto si fa sentire”.
Amity sta ampliando in modo massiccio la propria base clienti in Europa e prevede di avere un team di 80 persone nel nuovo quartier generale europeo di Milano già entro un anno. La società sta assumendo personale in ruoli in sales, con focus sul mercato europeo, svariati ruoli tecnici e da mesi è alla ricerca un Solution Architect, una persona che sappia spiegare alle aziende come usare al meglio la tecnologia della startup.
Il prossimo passo è diventare un unicorno, ovvero una startup che supera la valutazione di un miliardo di dollari. “Contiamo di riuscirci entro l’anno” afferma Francesca Gargaglia. Non sarà un unicorno italiano, ma sarà co-fondato da una giovane imprenditrice italiana, con una parte delle attività in Italia. Che sono comunque buone notizie per l’ecosistema.