Eccessiva burocrazia a carico degli investitori, scarsa marginalità per il gestore della piattaforma, scarsità di domanda di investimenti: sono i principali motivi per i quali SmartHub, piattaforma di equity crowdfunding iscritta dal 9 aprile 2014 nel registro dei portali autorizzati da Consob, ha “comunicato di aver temporaneamente sospeso l’operatività”. Quel “temporaneamente” in realtà sta “per sempre”. SmartHub è la prima a lasciare il campo da quando in Italia, nel 2013, è partita questa innovativa modalità di raccolta fondi online che prevede finanziamenti in cambio di quote azionarie. “Abbiamo capito che, stando così le cose, era molto difficile fare equity crowdfunding” spiega a EconomyUp Emanuele Mario Parisi, Ceo di SmartHub. “Tanto vale impegnarsi nella ricerca di investitori istituzionali e nel venture capital. Attività che abbiamo fatto e continueremo a fare, oltre a concentrarci su incubazione di impresa e consulenza. Ho la sensazione che altre piattaforme ci seguiranno nei prossimi mesi”.
In un certo senso una selezione naturale. Con una raccolta fondi che, a giugno 2016, ha raggiunto quota 5,565 milioni di euro, i portali autorizzati finora ammontavano a 19 (compreso SmartHub), a fronte di 48 campagne di raccolta, di cui 19 chiuse con successo. Un rapporto, quello tra numero di piattaforme e numero di campagne, che la maggior parte degli analisti trova sbilanciato. Tanto più che ce n’è una, StarsUp, che da sola ha lanciato 16 progetti. Un graduale sfoltimento della variegata platea dei portali potrebbe rientrare nell’ordine delle cose.
A cadere per primo Emanuele Mario Parisi, che pure è stato tra i pionieri. Ricercatore all’Università Iulm di Milano, aveva elaborato una serie di analisi sull’equity crowdfunding fino a decidere di passare dall’accademia alla pratica e sperimentare di persona, in qualità di intermediario finanziario, la nuova modalità di raccolta fondi. Il suo è stato il terzo portale a lanciare una campagna di equity crowdfunding in Italia. Che però non è andata in porto. La scommessa era su un progetto editoriale e no profit, Liberos, ideato da Isterre Srl, startup a vocazione sociale guidata da Francesca Casula. Negli ultimi anni Isterre ha svolto con successo sul territorio sardo attività di promozione della lettura all’interno di scuole e Comuni attraverso un modello social in grado di coinvolgere tutti gli attori della filiera del libro: autori ma anche comitati, festival, traduttori, case editrici, scuole e lettori. Sulla carta la “crowd”, ovvero il network consolidato di fan e sostenitori disposto a finanziare il progetto, c’era. In più, per attrarre investitori, i gestori della piattaforma contavano sul fatto che le startup innovative a vocazione sociale hanno una detrazione d’imposta fino al 25% per le persone fisiche e una deduzione dal reddito imponibile fino al 27% per le persone giuridiche. Nella realtà gli aspiranti finanziatori del progetto Liberos hanno dovuto lottare con la burocrazia pre-riforma. Il regolamento sull’equity crowdfunding emanato a luglio 2013 è stato infatti riformato a febbraio scorso dopo che erano emerse varie criticità, in particolare relative ai vincoli burocratici e amministrativi disseminati sul cammino del piccolo aspirante finanziatore. “Nel corso della nostra campagna – dice Parisi – ci sono stati soggetti che non riuscivano a effettuare l’investimento, altri che versavano 500 euro e se li vedevano rimandare indietro perché dovevano essere 499,99, altrimenti scattava la trafila dei controlli bancari. Insomma, l’onere della transazione era più elevato della transazione stessa”. Grazie alla riforma non sarà più necessario, per le piattaforme che faranno richiesta alla Consob, l’obbligo di far transitare gli investitori per importi sopra soglia (ovvero 500 euro per persona fisica e 5000 euro per persona giuridica) presso un intermediario finanziario (banca o Sim) per la compilazione del questionario MiFID ai fini dell’appropriatezza.
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Il progetto Liberos ha invece dovuto fare i conti con le iniziali complicazioni. Così, sui 200mila euro richiesti in Rete, è arrivato solo a ottenere il 30%. Il che, in base alle regole dell’equity crowdfunding, equivale a zero. Adesso che le procedure sono semplificate SmartHub avrebbe potuto riprovarci. Ma ci sono altri motivi dietro al suo addio: “È un mercato che ha una marginalità molto bassa” argomenta Parisi. “Ogni portale sceglie quale percentuale trattenere, noi proponevamo il 4%. Su una campagna da 100mila euro, sono appena 4mila euro. D’altra parte ci sono i costi di gestione, amministrazione, customer care, comunicazione, i costi per la trasparenza, quelli fiscali. Soltanto l’imposta per la permanenza nel registro Consob ammonta a circa 1500 euro. È chiaro che i margini finiscono per essere ridotti”.
Un altro punto dolente, sempre secondo il Ceo di SmartHub, è la scarsa domanda di investimenti in Italia. “C’è poca gente che vuole investire, non siamo proprio la Silicon Valley. Avere una piattaforma online sulla quale viene presentato un investimento dovrebbe far sì che sia l’investitore a consultare il portale e, se interessato, a contattare il gestore. In realtà questo non avveniva: da noi il segmento dei possibili investitori è sempre lo stesso, non hanno bisogno di collegarsi a una piattaforma, le iniziative sulle quali investire le conoscono già”.
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Inoltre Parisi, probabilmente analizzando la questione con l’occhio del ricercatore universitario, si pone delle domande sulla natura stessa dell’equity crowdfunding e sulla sua definizione. “Sappiamo da tutti gli studi in materia che i punti di forza sono la compartecipazione del pubblico a un progetto al fine di sbloccare le risorse del risparmio privato e dirottarle su un nuovo tipo di investimento. Ma dal nostro osservatorio ci siamo resi conto che non si riesce a coinvolgere a sufficienza la crowd, mentre sono presenti investitori istituzionali. Allora dovremmo chiamarlo equity collecting…In fondo anche in altri Paesi l’equity crowdfunding non ha funzionato benissimo, se non in Gran Bretagna: l’unica piazza di successo è Londra perché i privati hanno più risorse finanziarie e sono più e meglio informati sugli strumenti a loro disposizione. A mio parere in Italia non è ancora il momento giusto per l’equity crowdfunding, ci vorranno diversi anni”.