SOSTENIBILITÀ AZIENDALE

Economia circolare, verso un’Europa senza sprechi (e greenwashing)

Sono ancora molte le imprese tentate dal greenwashing, quando si parla di sostenibilità. Ma la Commissione Europea spinge per limitarlo e andare verso l’economia circolare.
Ne parliamo con Camilla Colucci, CEO di Circularity

Pubblicato il 03 Ott 2023

Immagine di Sansoen Saengsakaorat da Shutterstock

Quando si parla di sostenibilità aziendale, più delle metà delle affermazioni da parte del management sono vaghe, fuorvianti o infondate mentre “solo” il 40% delle stesse non è supportato da alcuna dimostrazione. Il 57,5% delle informazioni fornite dalle organizzazioni, inoltre, non viene supportato da informazioni sufficienti a valutare la fondatezza delle stesse.

Queste sono le percentuali che arrivano da una recente indagine della Commissione Europea, che mettono in evidenza come il fenomeno chiamato greenwashing sia ancora piuttosto presente, nonostante ormai il tema della sostenibilità d’impresa sia all’ordine del giorno. Ma di cosa si tratta?

“Il greenwashing si verifica quando imprese, enti e istituzioni comunicano in modo fuorviante le proprie progettualità, raccontandole come più green di quanto siano in realtà, oppure presentando come tali determinate attività che invece non lo sono per nulla, illudendo il consumatore e comunicando informazioni erronee”, puntualizza Camilla Colucci, CEO di Circularity, start up innovativa che accompagna le imprese verso l’integrazione dei principi dell’economia circolare nel proprio modello di business.

Economia circolare, come e perché si fa (ancora) greenwashing

Il greenwashing è una pratica a cui sembra difficile rinunciare. Si pensi ad esempio alla tentazione, da parte di diverse organizzazioni, di edulcorare la narrazione sulla sostenibilità d’impresa, magari semplicemente omettendo dai report i dati non propriamente positivi.

Si pensi anche a quelle realtà che inseriscono nei propri prodotti delle etichette estremamente generiche, come EcoFriendly o 100% Green, che inducono il consumatore a pensare che l’azienda si stia comportando in maniera sostenibile, quando invece label di questo tipo hanno ben poco a che fare con le reali modalità di produzione industriali.

O ancora, si considerino tutte quelle aziende che annunciano la pubblicazione del proprio bilancio di sostenibilità, facendo però confusione con altri strumenti esistenti quali il report ambientale, il bilancio sociale o la relazione benefit. Inoltre, non pochi di questi documenti sono caratterizzati da rendicontazioni approssimative, che non prendono in considerazione gli standard riconosciuti a livello internazionale.

Per questo la pratica del greenwashing, come dimostrano svariati casi a livello internazionale, rischia di costare cara alle organizzazioni provocando gravi danni a livello reputazionale e, di conseguenza, la perdita di quote di mercato.

Ma perché allora cascare in questa trappola? Colucci sottolinea: “purtroppo il greenwashing non era stato regolamentato sinora. Da quest’anno saranno definite linee guida su come evitarlo o sanzioni che puniscono coloro che lo praticano, in modo da fermare un fenomeno che continua a perdurare. Lo scopo di chi fa greenwashing, d’altra parte, è sempre quello di acquisire un vantaggio competitivo sul mercato, cercando di far credere al consumatore qualcosa di non veritiero e sfruttando anche la sempre maggiore attenzione verso le tematiche della sostenibilità”.

Economia circolare, la proposta di direttiva sui Green Claims

Questa sorta di immunità normativa, però, appare destinata a terminare nel prossimo futuro. Lo scorso marzo la Commissione Europea ha presentato una Proposta di Direttiva sui Green Claims, che punta a garantire che le informazioni sulle questioni ambientali siano affidabili, comparabili e verificabili, riducendo così il rischio di greenwashing e consentendo ai consumatori di prendere decisioni consapevoli.

Il cuore della proposta sta nelle conseguenze legate alla scelta di sottoscrivere una “dichiarazione verde” da parte dell’impresa sui propri o servizi: l’azienda deve rispettare delle norme minime, garantendo che le informazioni divulgate sul mercato siano verificate in modo indipendente e convalidate da prove scientifiche. In caso contrario, il rischio concreto è andare incontro a delle sanzioni (il cui quadro deve essere ancora delineato dalle istituzioni europee) che si sommerebbero al danno reputazionale e di immagine.

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Economia circolare, qual è il ruolo della CSRD

Un’ulteriore spinta alla limitazione del greenwashing arriverà anche dalla CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive) entrata in vigore a gennaio 2023. Come enfatizza Colucci: “la CSRD estende il perimetro di obbligatorietà di rendicontazione delle performance di sostenibilità. Ad oggi sono incluse soltanto aziende quotate di grandi dimensioni, progressivamente dal 2024 al 2029 verranno coinvolte altre tipologie di imprese, a partire da grandi realtà non quotate sino alle PMI. Si passerà, soltanto in Italia, da circa 11.000 aziende coinvolte a 50.000. Questa estensione dell’obbligo sarà decisiva, perché un numero molto più ampio di aziende dovrà rendicontare la propria performance sulla base di criteri e parametri basati su standard internazionali riconosciuti. Tutto questo limiterà di per sé le comunicazioni falsate tipiche del greenwashing”.

Economia circolare, l’impatto sul greenwashing

Un supporto al contenimento del fenomeno passerà anche dalla piena affermazione del modello dell’economia circolare, un percorso in cui Circularity accompagna i propri clienti. “L’economia circolare si basa sulle cosiddette quattro R: ricicla, ripara, riutilizza e recupera. Si tratta di un modello estremamente quantificabile, tanto che è possibile misurare con esattezza quanto le imprese siano effettivamente circolari. Parliamo di parametri come i livelli di CO2 emessa o la materia valorizzata che possono essere misurati in maniera inequivocabile. Non a caso i nostri progetti sono incentrati sulla qualità del dato: fare economia circolare non significa soltanto andare a supportare le aziende in un progetto contro la deforestazione, ma avviare una strategia a lungo termine, dotata di obiettivi misurabili e appositi KPI, da monitorare nel corso degli anni e che si integrino con il piano industriale complessivo dell’azienda”, riporta Colucci.

Sposare l’economia circolare, in questo senso, può davvero essere un ottimo antidoto contro la tentazione del greenwashing. “Anche a noi è capitato che alcuni clienti ci chiedessero di omettere alcuni punteggi non significativi. Invece uno dei nostri valori è proprio quello di portare avanti un discorso basato sulla veridicità del dato, così da supportare le aziende in un percorso di sostenibilità completo. Il nostro approccio è quello di spiegare che non per forza determinati dati evidenziano un approccio poco sostenibile, ma che invece possono essere usati come base per un concreto miglioramento futuro. Faccio un esempio: un’acciaieria estremamente energivora con un elevato impatto ambientale può mettersi in buona luce impegnandosi ad abbattere consumi ed emissioni del 20%, investendo sia budget che risorse in progetti concreti di efficientamento”, conclude Colucci.

Investire in economia circolare si rivela così la scelta vincente per le imprese, capace di allontanare lo spettro del greenwashing e valorizzare non solo la riprogettazione dei processi produttivi in ottica di efficientamento ma anche la gestione degli scarti a 360 gradi.

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Gianluigi Torchiani
Gianluigi Torchiani

Giornalista, mi occupo da tredici anni di tecnologia per le imprese ed energia. Scrivo per Digital360.

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