Ecosistema

«Ecco perché Polihub è diventato il secondo incubatore universitario d’Europa»

Stefano Mainetti, ceo e consigliere delegato dell’acceleratore della Fondazione Politecnico di Milano, spiega quali sono i parametri presi in considerazione da UBI Global nello stilare i ranking dei business accelerator e racconta come il cambio di modello abbia portato alla crescita

Pubblicato il 18 Nov 2015

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Stefano Mainetti, consigliere delegato di Polihub

In un ecosistema a caccia di riconoscimenti internazionali come quello italiano, il secondo posto di Polihub nel ranking europeo degli incubatori universitari stilato da UBI Global può essere letto come un segnale incoraggiante. Stefano Mainetti, ceo e consigliere delegato dell’incubatore del Politecnico di Milano, gestito dalla Fondazione Politecnico di Milano, illustra i numeri del business accelerator e spiega il percorso fatto dalla struttura per raggiungere questo risultato.

Mainetti, che valore ha questo riconoscimento per Polihub?

È la garanzia di aver lavorato bene. Un bollino di qualità. Nel 2013 eravamo noni in classifica e avevamo un modello diverso rispetto a quello attuale: eravamo orientati prevalentemente a far crescere spinoff e startup interni al Politecnico, vale a dire la nostra missione principale. Poi abbiamo deciso di investire ulteriormente, aprendoci maggiormente verso l’intero ecosistema delle startup, realizzando il modello “hub” attuale: ci siamo aperti all’esterno, abbiamo individuato e incubato molte startup in più e abbiamo assestato i processi di scouting, mentoring e di supporto al finanziamento. L’anno scorso, avendo trasformato il modello molti indicatori di performance erano cambiati ed eravamo usciti dai primi dieci del ranking. Gli investimenti operati, però, ci hanno permesso di raccogliere i frutti quest’anno: infatti ci siamo piazzati secondi in Europa.

Cosa ha fatto Polihub per ottenere il riconoscimento?

Innanzitutto abbiamo operato per fornire a Ubi Global tutte le informazioni necessarie per valutare la nostra trasformazione di modello. Siamo andati in fondo al processo di benchmarking incontrando gli auditor e fornendo loro tutta la documentazione necessaria per provare in modo oggettivo le informazioni raccolte.

Cosa ha valutato Ubi Global nello stilare il ranking?

Il primo criterio di cui ha tenuto conto è il valore che l’incubatore dà all’ecosistema: i posti di lavoro creati, il fatturato aggregato delle startup, la capacità di ricevere finanziamenti… In due anni, siamo arrivati a circa 70 startup incubate, più di 11 milioni di finanziamenti, un fatturato aggregato di 17 milioni di euro e 350 posti di lavoro full time equivalent. Il secondo criterio è il valore generato per i clienti, in questo caso le startup: si misura il numero di ore di coaching e di mentoring per ogni startup, il numero di partner industriali che permettono alle nuove imprese di avere un sostegno nell’industrializzazione delle loro idee. Il terzo criterio è quello dell’attrattività per l’ecosistema. Ovvero, il numero di idee ricevute: 850 nel 2014 e 1.200 nel 2015. E ancora, l’indice di sopravvivenza sul mercato delle startup uscite dall’incubatore: nel nostro caso, è l’83%. Infine, hanno valutato il numero e il valore delle “exit”. Di per sé questo valore non è male, anche se purtroppo non siamo ancora riusciti ad avere la soddisfazione di vedere una startup incubata in Polihub raggiungere la quotazione in borsa.

Ha parlato di partner industriali. Quali sono quelli del Polihub?

Ci sono stati alcuni partner che hanno lanciato le loro call for ideas pubblicamente: Ibm, Aviva, Samsung, Microsoft, CheBanca, Sap, Mediaset, Smau, Vodafone, Bnp Paribas, Novartis. Altre invece hanno fatto iniziative mirate ma non le hanno rese pubbliche per non farle sapere alla concorrenza.

Gli incubatori universitari come Polihub non hanno la possibilità di investire direttamente nelle startup come fanno i venture incubator: le piacerebbe come prospettiva? E se sì, come?

Se si dovesse dare al Polihub la possibilità di entrare nel capitale delle startup sarebbe necessario un fondo dedicato. E se ci fosse, credo sia fondamentale definire in modo corretto il tema della governance. Quella del fondo sarebbe una scelta importante, ma va valutata con attenzione. Operare da “venture” è un mestiere diverso: oggi al Polihub siamo principalmente concentrati nel favorire tutte le iniziative potenzialmente interessanti di nuova imprenditoria tecnologica, cerchiamo di favorire e sostenere studenti e spin-off in questa direzione. Lasciamo quindi agli investitori nostri partner le decisioni di assumersi oneri ed onori di sostenere le iniziative con capitali di rischio, ovviamente fornendo loro tutte le informazioni e il supporto necessario.

Dalla classifica UBI Global emerge che tra gli incubatori premiati ce ne sono alcuni, tra cui il primo in graduatoria, che aggregano più università. In prospettiva, è possibile anche in Italia?

È possibile, certamente, ma sappiamo anche che far sistema non è mai facilissimo. Esistono già collaborazioni virtuose tra gli incubatori universitari, come nel caso del Pni Cube o nei momenti in cui suggeriamo a una startup di rivolgersi a un altro incubatore quando ci sono alcune specificità: per esempio, a noi è capitato di suggerire a D-Orbit di andare a Comonext perché poteva essere lo spazio più appropriato per quello che stavano sviluppando. In genere, sebbene ci sia un po’ di sana competizione anche tra gli incubatori universitari, si può pensare a un sistema in cui le collaborazioni virtuose aumentano – cosa che abbiamo intenzione di fare a prescindere – per giungere a valutare, sulla base delle esperienze fatte, vere e proprie aggregazioni. Ma spingere o meno su una politica di aggregazione è una scelta che va oltre i singoli incubatori e riguarda anche i decisori pubblici. È da lì che potrebbero arrivare importanti indicazioni in questo senso.

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