“Abbiamo la fortuna di agire in un mercato come quello italiano che non è ancora stato sfruttato: è una grande opportunità, a cui stanno guardando con attenzione anche gli investitori esteri”. Visto da Andrea Di Camillo, managing partner del venture capital P101 che ha da poco chiuso formalmente il suo primo fondo da 66,3 milioni di euro, l’ecosistema dell’innovazione in Italia è un piccolo eldorado per chi fa investimenti: presenta molte realtà promettenti e allo stesso tempo è un territorio ancora poco esplorato, quasi vergine. Una visione rosea, quella del venture capitalist, che può aiutare a gettare luce in un ambiente, come quello italiano, che si fa prendere spesso dalla malinconia per i ritardi rispetto ad altri paesi.
Di Camillo, il 2016 sta per chiudersi. Che anno è stato per l’ecosistema italiano?
È stato un anno sicuramente positivo. Il volume degli investimenti è cresciuto, così come sono aumentate le dimensioni dei round. Una serie di investitori, oltre a quelli che hanno sostenuto P101 fin dall’inizio, cominciano a guardare a questo nostro mercato, anche dall’estero. Le prospettive si dimostrano in linea con quello che ci aspettavamo quando abbiamo dato avvio ai primi investimenti. Le aziende cominciano ad accorgersi dell’enorme impatto che ha il digitale nel trasformare i modelli di business e creare nuovi spazi di mercato. Il digital divide si sta colmando, seppur lentamente, a partire dagli utenti finali e a risalire sulle imprese. È lì che bisogna investire: molti si stanno accorgendo che l’Italia è un’opportunità non colta, e questo ritardo la rende più interessante per gli investimenti rispetto ad altri posti dove sono state fatte già tante cose e c’è molta più concorrenza.
Da dove viene tanta fiducia verso l’Italia?
Abbiamo un doppio beneficio: qui si possono fare cose che in futuro saranno più grandi e farle più velocemente perché abbiamo già visto accadere molte cose all’estero, non dobbiamo reinventarci nulla.
P101 ha da poco chiuso il suo primo fondo. Cosa cambia adesso?
Il closing del fondo da 66,3 milioni è la formalizzazione di processo definito dodici mesi fa ma rappresenta una prima consacrazione del lavoro fatto: siamo riusciti in pochi anni a raccogliere non pochi soldi, abbiamo già fatto 24 investimenti, investito il 60% di quanto raccolto, fatto operazioni numericamente in linea con quelle realizzate in altri mercati e, in alcuni casi, anche qualitativamente meglio. Abbiamo la fortuna di agire in un mercato come quello italiano che non è ancora stato sfruttato: è una grande opportunità. La chiusura del fondo arriva a conclusione di un anno che per noi è andato molto bene. Ci sono stati round di grandi dimensioni per le startup del nostro portafoglio, tra cui quello da 10 milioni di dollari per Musement. E in genere sono state positive anche altre operazioni fatte. Buoni segnali, anche in vista dei ritorni che speriamo di generare.
Chi ha sottoscritto il vostro fondo Programma 101?
I nomi principali, tra gli investitori istituzionali, sono Fondo Italiano d’Investimento, Gruppo Azimut, grazie ai quali questa avventura è partita, ed European Investment Fund. Poi, abbiamo partecipato con quasi 3 milioni anche noi del management team (composto, oltre che dallo stesso Di Camillo, da Giuseppe Donvito, Glenda Grazioli, Alessandro Tavecchio e Mariano Ambrosio, ndr). Tra i partner dell’iniziativa ci sono poi anche realtà note nell’ecosistema italiano come H-Farm, Nana Bianca, I3P, Boox, Club Italia Investimenti e Club Digitale.
Su quali settori puntate di più?
Uno in cui crediamo molto è l’ecommerce, anche se non lo si può definire un settore. Il retail va verso una modalità di consumo più comoda e conveniente. Il consumatore è esigente e nello shopping online trova risposte più efficaci. Le realtà su cui abbiamo scommesso noi, tra cui Cortilia e Tannico, hanno la loro principale innovazione non tanto sul contenuto hi-tech, che pure c’è, quanto sulla capacità del modello di business di rispondere a richieste di mercato. L’ecommerce si inserisce in una tesi di investimento più ampia che ha i suoi pilastri nei settori in cui l’Italia ha know how e riconoscimento internazionale: food, turismo, design, fashion. I progetti che prendiamo in considerazione sono quelli che introducono modelli di innovazione all’interno di questo perimetro. Per esempio, lo abbiamo con Musement nel turismo, con Cortilia nel food, con Velasca e Contact Lab nel fashion.
Il governo Renzi è uscito di scena. Che importanza ha avuto questo esecutivo per l’ecosistema dell’innovazione?
Il mio giudizio sull’operato dell’esecutivo in ambito innovazione è positivo. Ha messo in campo molte misure per le nuove imprese e ha portato avanti il cammino intrapreso con i principi introdotti con Restart, Italia!, le proposte della task force voluta dall’allora ministro Passera di cui facevo parte anche io, e gli interventi a favore delle startup inaugurati con il Decreto Crescita 2.0. Ha agito in continuità, e questo è un fatto positivo. Nello specifico, poi, ha concentrato molto l’attenzione sul tema delle startup: uno dei lasciti più importanti è questo. Ora, chiunque sia il successore, ha il dovere di continuare questa politica industriale e, se possibile, di migliorarla coinvolgendo ancora di più gli investitori privati e istituzionali nel sostenere la nuova imprenditorialità innovativa.
Cosa rimprovera invece al governo?
Non ho critiche da rivolgere. Ripeto: mi auguro che si prenda quanto è stato fatto e lo si migliori.
Nello specifico, come giudica le misure dedicate a Industria 4.0 e cosa resta da fare?
Sono misure interessanti. Anche in questo caso, sono in linea con le cose buone fatte in passato. L’unico lavoro che ancora sarebbe fare è in termini di semplificazione. Le norme non sempre sono facili da interpretare. Tuttavia è un limite di tutta l’infrastruttura legislativa italiana. Poi si potrebbe essere ancora più coraggiosi sul tema degli sgravi fiscali. L’ecosistema francese, in pratica, è diventato una realtà competitiva soprattutto grazie a questo tipo di incentivi.
Per quanto in crescita, gli investimenti in startup non raggiungono neanche quota 200 milioni: siamo molto al di sotto dei livelli dei nostri pari livello europei. Perché?
Il problema è a monte. E riguarda la cultura e l’informazione. Il venture capital non è considerato un’opportunità finanziaria per quanto merita. Noi investiamo in ciò che produce la crescita economica del paese ed è in grado di cambiare lo status quo. Eppure questo concetto non è molto chiaro. Molti pensano che facciamo un’attività in ambito tecnologico un po’ fine a se stessa. Combinando informazione corretta e incentivi, anche banche e fondi pensione, che solo ora cominciano a guardare al nostro mondo, dovrebbero essere spinti a investire con più vigore.
Che 2017 sarà?
Per P101 sarà un anno in cui ci saranno evidenze industriali di ciò che abbiamo fatto con i primi risultati importanti. E forse anche con qualche exit. Per l’ecosistema italiano prevedo una presenza molto più forte di aziende e fondi corporate esteri interessati a investire da noi.