Hands on the ground

Della pignata, della cucchiara e della paura (del cambiamento)

Ogni capo (e ogni imprenditore) dovrebbe imparare a vedere i guai della propria pentola da una posizione privilegiata. Per capire che alcuni problemi sono emanazioni dei propri limiti. E che il problema per cui non ci sono soluzioni tecniche è la mancanza di coraggio

Pubblicato il 06 Giu 2017

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Si dice in siciliano che “li vai di la pignata li sapi la cucchiara” ossia che i guai della pentola li conosce il cucchiaio. Un po’ come un genitore conosce bene i difetti dei propri figli, ogni imprenditore in fondo conosce i difetti della propria azienda e ogni capo conosce i difetti del proprio team.

Francamente, il capo deve conoscere bene anche i propri e comprendere che molti dei difetti della propria azienda o del team sono emanazione dei propri. Qualche tempo fa scrissi la lettera di un capo imperfetto ai propri collaboratori.
Tempo è passato e quella lettera credo possa essere applicata in molti contesti..

Dopo avere vissuto nelle scorse settimane qualcosa che non dimenticherò facilmente, ho iniziato finalmente a imparare come vedere anche le situazioni più complesse con distacco. Alle volte è necessario arrivare al fondo per vedere veramente le cose come stanno e non essere più indulgenti né con sé stessi né con coloro che ci circondano.

Ogni capo dovrebbe, infatti, guardare i guai della propria pentola da una posizione privilegiata, in cui, pur sapendo quali errori ha commesso, è bene non sentirsi responsabili (come un genitore del proprio figlio), bensì consapevoli (come colui che comprende che le responsabilità del successo e dell’insuccesso di un’avventura non sono mai di un uomo solo). In un’impresa è fondamentale guardare con un animo più leggero a ciò che ci circonda, senza particolari vincoli o limitazioni. E’ fondamentale che un capo sia libero di decidere. Come scrissi nel post, in ogni azienda deve arrivare il momento di iniziare a lasciare andare, a lasciar camminare le persone con le loro gambe, ma anche il momento di prendere decisioni dolorose o impopolari purché a salvaguardia del futuro.

Il problema più grosso è quando i guai della pentola di un capo possano essere riassumibili in una sola parola: la paura, nelle sue più disparate declinazioni.

Paura del cambiamento, paura di aprirsi all’esterno, di condividere, paura che porta al silenzio più ipocrita, che porta, come si dice in Sicilia, a non fare scruscio (per i continentali, rumore) pur di non doverla fronteggiare, che porta ad annacarsi (ossia a prodursi in un movimento ondulatorio che non comporta alcuno spostamento, a il girarsi su se stesso mantenendo l’immobilità) ma a non ottenere nulla.

E’ facile affrontare un problema tecnico. Ne va dell’abilità, dell’esperienza, della competenza tecnica. C’è quasi sempre una soluzione. Tutto può essere prevedibile e determinabile.

Cosa diversa è affrontare i problemi organizzativi e relazionali. Qui il confine è sfumato, le reazioni delle persone sono imprevedibili, interviene il carattere dei singoli, la loro storia, la provenienza, le reciproche relazioni, la loro educazione e cultura, insomma, così tanti fattori da rendere la gestione dei conflitti una scienza tutt’altro che semplice.

Eppure, mentre la competenza tecnica la compri sul mercato, le cosiddette “soft skills” inizio a pensare che possano essere solo affinate, ma mai realmente acquisite. O le hai o non le hai. Se poi per qualcuno è il coraggio a mancare, beh, quello non si installa come un software. Allora è la paura ad avere la meglio e a dettare il tempo, in tutto e per tutto. E la paura si diffonde come una macchia d’olio e immobilizza tutti.

La paura di affrontare i problemi man mano che si presentano, la paura di parlarne, di guardarli a viso aperto, la tendenza a mettere la polvere sotto il tappeto pur di salvare le apparenze, l’incapacità di voler guardare in faccia il prossimo per dirgli chiaramente cosa non va, la paura di assumersi responsabilità dolorose quando il ruolo lo richiede, la paura di parlare direttamente delle cose senza sfruttare metafore e allusioni… sono i comportamenti che ci illudono di vivere una vita tranquilla o che una situazione sia rosea, finché qualcuno non gira la “corda pazza” e fa crollare la maschera, rompe il giocattolo e mette tutti davanti alla realtà.

Il re è nudo.

Nel momento in cui il re è davvero nudo, l’unica è decidere di vivere e lasciar vivere, ma con autenticità senza tollerare ipocrisie e compromessi, mezze frasi o frasi a “trasi e nesci” (ossia a entra ed esci per dire senza dire) perchè, alla fine, credo che nella vita di una persona, come in ogni azienda, debba arrivare il momento di considerarci tutti adulti.

Ma quando è che siamo adulti? Come siamo cresciuti e diventati adulti?
Penso che per potere crescere bisogna avere il coraggio di far accadere le cose ma anche il coraggio di avere qualcosa di genuinamente segreto nella vita.
Basti pensare a quante cose non sono state dette ai nostri genitori, proprio per poter crescere.
Ogni bambino certe cose le deve tacere o omettere, certi suoi lati oscuri li deve tenere per sé proprio per sperimentare le sue capacità, le sue abilità.
Quando il silenzio, la tolleranza e le omissioni all’interno di un’azienda non servono per sperimentare capacità ed abilità, ma solo per mettere la testa sotto la sabbia e non diventare adulti, allora sorge davvero un problema.
Ecco perchè, a quel punto, un buon capo deve prendere la sua pignata e decidere di arriminarla (girarla, di darle una mossa, di sollecitarla a sbrigarsi e cambiare passo), cucchiara alla mano.

* Hands on the ground è il blog di Gianmarco Troia, “self-made entrepreneur” inquieto, curioso e riflessivo

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