Darwin (Berkeley): «Pmi italiane in vantaggio nella corsa all’open innovation»

«Le società più piccole non hanno le risorse né i talenti delle multinazionali ma sono più agili» dice il direttore del Garwood Center for Corporate Innovation dell’università californiana. «Le grandi rischiano di fallire perché non sanno adattarsi ai mutamenti ambientali»

Pubblicato il 01 Apr 2016

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Solomon Darwin

L’open innovation si può fare, e bene, anche in Italia, perché “l’ossatura dell’economia italiana sono le piccole e medie imprese, che sono più agili e più portate al cambiamento”. L’opinione arriva dalla Silicon Valley ed è altamente qualificata: è quella di Solomon Darwin, direttore esecutivo del “Garwood Center for Corporate Innovation” dell’Università di Berkeley, in California, tra i più importanti centri americani che si occupano della materia. Pochi meglio di lui sono in grado di spiegare questo modello in base al quale le imprese, per creare più valore e competere meglio sul mercato, possono ricorrere a strumenti e competenze tecnologiche che arrivano dall’esterno quali startup, università, fornitori, inventori e consulenti. Anche perché il direttore della Haas School of Business dell’Università di Berkeley, presso la quale è operativo il Garwood Center, è Henry Chesbrough, l’economista che per primo ha coniato il termine open innovation e ha spiegato di cosa si tratta in un volume con questo titolo.

Darwin lavora a stretto contatto con Chesbrough e si fa in qualche modo portavoce anche delle sue teorie quando spiega la necessità per le multinazionali di essere “aperte”: “Una volta cresciute – dice – molte aziende perdono la capacità di innovare. Diventano come dinosauri o elefanti, non sono più agili come leopardi: non possono correre, non riescono a cambiare direzione. Perciò non sanno innovare velocemente come le più piccole né ad adattarsi ai cambiamenti ambientali e quindi perdono il vantaggio competitivo. Il nostro Centro lavora per una trentina di multinazionali che sono in uno stadio maturo e che, prima di scivolare verso il declino, provano a cercare strade innovative. Noi diamo loro una nuova vita”.

Ma, in generale, le aziende stanno comprendendo l’importanza dell’open innovation?
Molte purtroppo sembrano ancora non capire che devono cambiare rapidamente per adattarsi al mutato panorama. È una delle ragioni per cui multinazionali come Kodak, Polaroid o Blockbuster sono fallite: perché non sono state in grado di realizzare in tempo un cambiamento di strategia. D’altra parte ci sono colossi come Ibm che hanno perfettamente compreso il nuovo trend. Un tempo Ibm vendeva computer, oggi non è più il suo prodotto ‘core’ e propone servizi. In più sta collaborando con 5000 università in tutto il mondo: entra negli atenei, accoglie le migliori idee e le porta in azienda.

Quali difficoltà incontra un’azienda che vuole innovare?
Una delle principali difficoltà ha a che fare con la cultura aziendale, che talvolta è un grande ostacolo per l’innovazione. Un altro punto debole è la struttura organizzativa. Poi c’è la questione, particolarmente rilevante, della proprietà intellettuale. Alcune imprese non la vogliono condividere, preferiscono mantenerne il possesso e usarla come voce di bilancio. Ma la proprietà intellettuale è un asset che si deprezza molto facilmente: quello che oggi vale mille, domani varrà zero. Se un’azienda vuole essere innovativa deve adottare una policy che consenta di condividere la proprietà intellettuale, o darla in licenza, o scambiarla o persino rilasciarla gratuitamente, magari in cambio di un vantaggio strategico che sia in grado di renderla il principale player sul mercato. Le multinazionali sono come dinosauri che hanno nel loro ventre tante uova pronte a schiudersi, le startup. I big devono costantemente sviluppare nuovi prodotti, perché quelli che in origine erano ‘core’ in futuro potrebbero non essere più vitali per il mercato e le società potrebbero morire. Per questo hanno bisogno delle giovani company.

Se per le aziende l’open innovation è una scelta, per le startup è uno sbocco naturale. Come sfruttarne al meglio le potenzialità?
Una startup di solito ha tante idee, ma è anche alla ricerca costante di un modello di business e può avere bisogno di ‘inserire’ le proprie idee nel business model di un’altra impresa. Può accadere che la giovane impresa abbia un’ottima idea, ma non un buon canale di distribuzione. A quel punto può decidere, per esempio, di stringere una partnership con Coca-Cola, che ha un eccellente canale di distribuzione. Oppure può dover ricorrere dell’aiuto di altri per recuperare risorse finanziarie o conoscenza scientifica. Le giovani società hanno una vera necessità di essere open nei modi più svariati. Serve flessibilità, ma per fortuna la maggior parte di loro è molto flessibile: i decision maker sono pochi, è facile prendere decisioni, mentre nelle big company non è così.

A che punto siamo con l’open innovation in Europa e in Italia?
In Europa ci sono in maggioranza piccole e medie imprese. Le società più piccole non hanno le risorse economiche, né i talenti, né il cash flow di quelle più grandi. In particolare l’ossatura dell’economia italiana è costituita da pmi. Ma non è un totale svantaggio, anzi io credo che possano utilizzare meglio l’open innovation, perché sono molto più agili delle multinazionali. In più oggi la maggior parte dei tool per avviare un’impresa sono gratuiti e digitali: non c’è più bisogno di cercarsi una sede fisica, si può fare tutto in Rete, magari ricorrendo a una tecnologia cloud-based. In questo momento storico gli strumenti digitali sono in grado di rafforzare le piccole e medie imprese in un modo che mai è stato fatto prima d’ora. Quindi ritengo che sia l’Italia sia l’Europa possano trarre vantaggio da questo panorama digitale che comprende anche l’open innovation.

Per approfondire l’open innovation, cominciare a conoscerla e soprattutto capire come guidarla, si può far riferimento all’iniziativa del Gruppo Digital360 legata proprio a questi temi.

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