«Le azioni si pesano, non si contano» è la celebre massima del fondatore e patron di Mediobanca Enrico Cuccia, forse più nota al grande pubblico nella sua declinazione calcistica sui goal.
Lo stesso principio andrebbe applicato quando si guarda ai numeri delle startups che spesso vengono valutati in modo “leggero”.
Startup, le zone grigie dei dati
Gli unici dati pubblici aggiornati disponibili sulle startup sono quelli relativi al capitale raccolto (e, in alcuni casi, alle valutazioni).
Non abbiamo purtroppo dati aggiornati di performance economica (come fatturato e margini). Nel mondo anglosassone – che rappresenta la parte più ampia del fenomeno – non c’è obbligo di pubblicazione dei financials se non per le public companyi, ossia le società quotate in Borsa, mentre in Europa, quando e dove i bilanci sono resi pubblici, sono disponibili con ampio ritardo, in genere non prima di 12/18 che, per aziende che cambiano pelle in mesi, sono l’equivalente di un’era geologica.
I dati degli addetti sono un’altra zona grigia difficilmente quantificabile, soprattutto in un comparto ove le rigidità della normativa del lavoro mal si sposa con aziende di necessità esposte a forte volatilità. Quindi, senza chiamare in causa gli estremi della Gig Economy, l’utilizzo tra le startup di forme contrattuali diverse dall’impiego è molto diffuso e rende anche le statistiche sulla forza lavoro poco significative.
Quindi, come detto, ci rimangono i dati del capitale raccolto che tuttavia non sono un indicatore di perfomance. Raccogliere tanto capitale non equivale ad avere successo. Il capitale raccolto è funzionale allo sviluppo delle startup, è l’equivalente della benzina messa nel serbatoio. Al suo aumentare (e con esso al crescere della valutazione) aumenta la “promessa” di rendimento fatta agli investitori e quindi le aspettative di crescita della startup.
Questi dati inoltre non considerano il segmento delle startup che “ab origine” non hanno mai raccolto fondi (le cosiddette “bootstrapped companies”) che non è dimensionalmente trascurabile.
Raccolta di capitali, ora si parla di EPP (Equity Private Placement)
Ultima nota di colore in un quadro che tende al grigio sono le modalità di raccolta. Inizialmente si guardava al solo capitale proveniente da fondi di Venture Capital e Business Angels. Ma nella realtà dei fatti l’investimento in startup si è progressivamente “imbastardito” con l’ingresso di aziende, family offices, super angels, piattaforme di crowdfunding, operatori ibridi tra servizi e investimento (come acceleratori, incubatori, startup studio, …) e, negli ultimi anni in forma sempre più crescente, del private equity. Di conseguenza, da un po’ nel mondo anglosassone si guarda agli apporti di capitale riferendosi complessivamente agli EPP, Equity Private Placement, visto che è sempre più difficile tracciare confini netti tra le diverse modalità che spesso si intersecano.
Ulteriore complicazione è rappresentata dal fatto che il private placement si incrocia sempre più spesso anche con la raccolta sui mercati, che si associa spesso alla cessione delle quote (exit). Al canale dell’IPO (Initial Public Offering) si è affiancato per un certo periodo quello delle SPAC (Special Purpose Acquisition Company), oltre ad una molteplicità di forme ibride.
Long story short: mappare il mondo delle startup è esercizio complesso che non può essere guidato da dogmi o definizioni che, peraltro, mostrano le rughe molto in fretta in una industry come quella del Venture Capital (in senso ampio) che è in continua rivoluzione. Piuttosto deve seguire metodologie solide ma, al contempo, capaci di evolvere e contemplare analisi idiosincratiche da fare caso per caso con cognizione di causa.
Startup Economy, la lunga coda della contrazione
La Startup Economy vive la long tail della contrazione (chiamata variamente “VC Pullback” o “VC Reset”) che, avviatesi nel 2022, si è intersecata con la crisi dell’economia reale (come già detto, attendiamoci tagli di budget sul fronte innovazione da parte delle aziende – Walmart ha appena chiuso lo Store No. 8, il proprio laboratorio di innovazione; un’altra grande azienda farà un annuncio ancora più drastico entro fine aprile).
Come leggere i dati dei round di finanziamento e delle exit in questo contesto?
Sifted, in due editoriali, ha interpretato, in modo molto evocativo, lo scenario attuale:
🔥 “The great startup Fire Sale is well underway in 2024”
🐑 “Silence of the rounds”
Nel primo ha evidenziato il trend di crescita delle exit di startup che, tuttavia, nella maggioranza dei casi, stanno avvenendo a prezzi al di sotto del capitale raccolto (in gergo “fire sale”) e che, quindi, di fatto, distruggono valore dal momento che non solo non remunerano il capitale in esse investito ma spesso non lo ritornano se non in minima parte. Quindi, nel 2024, potremmo assistere a numeri di exit in aumento senza che questo fenomeno rappresenti di per sé un dato positivo per l’ecosistema. Quindi i dati vanno letti con cognizione di causa.
Con il secondo si intende la riduzione di annunci di round di finanziamento. Ciò è dovuto all’oggettivo calo delle operazioni a seguito della contrazione del mercato. Ma anche ai mancati annunci da parte delle startup di round chiusi con investitori esistenti a condizioni spesso peggiorative (si parla di “downround”). Quindi molte di queste operazioni potrebbero sfuggire alle statistiche o affiorare solo in un secondo momento.
Per tutto questo, i numeri vanno pesati, per non dire “pensati”, se ripenso al fatuo dibattito accesosi intorno al recente round di Bending Spoons e alla definizione di unicorno. Al riguardo non vale la pena sciupare inchiostro. Per chi volesse sapere come la penso rimando alla puntata di Innovation Weekly, il format su Linkedin con Giovanni Iozzia, di sabato scorso ( (per chi fosse interessato a riascoltarla, con Giovanni Fusaro di AIFI come ospite).