Se il Novecento è stato il secolo nel quale le società utopiche si sono materializzate e sono fallite (ma anche il secolo in cui hanno molte società distopiche hanno preso forma e molte altre sono state descritte nei dettagli come nel notissimo 1984), non sono pochi gli idealisti che sono sbarcati nel nuovo millennio continuando a coltivare la propria idea di un piccolo mondo perfetto. Tanto che, soprattutto negli ultimi anni, si sono moltiplicate le micronazioni basate su un’utopia: solo per citarne alcune, il Regno di Talossa, fondato nel 1979 e riunificato nel 2012; il Regno dell’Amore, del 2004; il Gay and Lesbian Kingdom of the Coral Sea Islands del 2004, la Repubblica Indipendente di Malu Entu (sull’isola di Mal di Ventre, in Sardegna) del 2008; e ancora, il Principato di Freedonia, nato (e morto poco dopo) nel 2001; quello di Sealand, attivo fin dal 1967; e quello di Seborga, nato nel 1963 e ancora in piena salute. E ad aggiungersi all’elenco potrebbe arrivare anche Sui Generis, un network di micronazioni private fondate sull’innovazione. Come a dire, l’utopia 2.0.
L’idea è di un gruppo di giovani imprenditori canadesi, che nel prossimo decennio vorrebbero creare in Europa (al momento, spiega il sito ufficiale del gruppo, suigeneris.li, sono al vaglio le Azzorre in Portogallo, l’isola di Møn in Danimarca, il Golfo del Quarnaro in Croazia e l’isola di Hiiumaa in Estonia) dei microstati basati su “libertà economica, mobilità radicale, sostenibilità, inclusività, creatività e innovazione” che diventino vere e proprie nazioni-incubatrici per le startup di tutto il mondo.
“Attualmente – racconta Guillaume Dumas, membro dei Sui Generis, in un’intervista a Co.Exist – è molto difficile venire a capo dei problemi con i governi nazionali. In alcuni Paesi la democrazia esiste da più di 150 anni, eppure si sta ancora cercando di far funzionare le cose nel modo in cui si vorrebbe. Ecco allora che entra in gioco il concetto di governo competitivo: che succederebbe se si potesse costruire un posto nuovo, con regole del tutto nuove, nuove aziende, nuove persone?”.
Già, che succederebbe? Per l’imprenditore canadese, ovviamente, sarebbe un successo planetario: nelle città-stato dell’innovazione nessuno pagherebbe le tasse ma a tutti sarebbe richiesto di lavorare per la comunità per un certo numero di ore ogni settimana, magari per costruire case stampate in 3D o per svolgere servizi essenziali. E a ogni cittadino sarebbe garantito il sogno di Beppe Grillo e dei Cinquestelle: il reddito di cittadinanza, sufficiente per coprire le spese di vitto, alloggio e per condurre una vita decorosa. Il governo, da parte sua, si garantirebbe le proprie entrate fungendo da incubatore per le startup, accogliendo e finanziando imprenditori promettenti in cambio di una partecipazione azionaria. E per quanto riguarda il territorio da utilizzare, verrebbe comprato dai Paesi ospitanti pagandolo a propria volta in partecipazioni azionarie.
A sostegno della propria idea, Dumas (che probabilmente deve l’animo da “tutti per uno, uno per tutti” anche al cognome) cita il successo dell’esperimento di Songdo, città della Corea del Sud creata da zero per essere dedicata al commercio e al business. Ma non parla di Masdar City, città costruita negli Emirati Arabi Uniti per essere un’oasi tecnologica dedicata anche all’incubazione di startup e PMI: benché ufficialmente ancora in costruzione (i lavori sono iniziati nel 2006 e dovrebbero concludersi entro metà 2016), secondo gli ultimi report l’iniziativa è stata un fallimento. E conclude spiegando di aver parlato del progetto anche a diversi investitori e venture capitalist: “L’idea è piaciuta, ma pensano che sia un po’ matta”.