Il problema dell’ecosistema italiano? Gli imprenditori di questa generazione: pensano troppo in piccolo. Ma per il resto in Italia ci sono tutte le condizioni per creare imprese innovative di successo a livello globale. Parola di Max Ciociola, fondatore e CEO di Musixmatch, la società bolognese nata nel 2010 che ha sviluppato il più grande catalogo online al mondo di testi di canzoni (oltre 14 milioni di lyrics) che si sincronizza con app e player di musica.
L’azienda è una “ex” startup che ha 30 dipendenti, due sedi internazionali (Londra e New York) oltre al quartier generale di Bologna, un fatturato milionario e oltre 50 milioni di utenti in tutto il mondo: dati alla mano, una delle realtà più internazionali brillanti del panorama italiano dell’imprenditoria digitale. È anche per questo che Ciociola ha i titoli per esprimersi sui trend globali dell’innovazione da tenere d’occhio nel 2017 e sui vizi e le virtù della scena italiana delle startup. Dalla sua riflessione escono fuori almeno nove buoni motivi per cui fare impresa in Italia è possibile eccome, a patto di non essere troppo “provinciali” e di privilegiare i mercati globali.
Ciociola, che 2017 sarà per l’innovazione?
Vedo diversi trend. Il futuro e la maggior parte degli investimenti si stanno spostando sul tema “life”, ovvero come migliorare la nostra vita. Trasporti, salute, food, fitness. Nella mobilità si stanno imponendo le energie rinnovabili come carburanti perché il tema dei cambiamenti climatici è sentito più di quanto si creda. Le auto elettriche si stanno diffondendo sempre di più: a Stoccolma ci sono almeno dieci colonnine di ricarica Tesla. E con le electric car ci saranno sistemi operativi per le auto sempre più complessi, su cui si potranno sviluppare una miriade di applicazioni. Per quanto riguarda l’healthcare, il cibo e lo stare in forma, noto che ci sono moltissimi investitori che puntano su settori come farmaci e biotecnologie, a cominciare da Mark Zuckerberg. Sarà una grande opportunità, per esempio, usare l’intelligenza artificiale e il machine learning per capire meglio l’impatto dei cibi e dell’attività fisica sul nostro organismo e sulla nostra vita. È molto probabile che si farà innovazione nel campo della salute con un approccio ingegneristico in grado di coniugare cibo, fitness, dati e device indossabili.
Quali altri settori si svilupperanno di più?
Su tutti, l’intelligenza artificiale, che abbinata al machine learning consente di imparare tantissime cose: come cammino, ciò che mangio, i miei spostamenti, la mia giornata tipica… in base alle cose che apprende, i software possono poi suggerire cosa fare. Ci stiamo investendo tantissimo anche noi in Musixmatch: puntiamo a sviluppare dei sistemi che comprendono, in base ai dati, se sei felice o meno quando ascolti un brano. Certo, l’intelligenza artificiale esiste da anni. Ma la grande novità di questi tempi è che adesso i software sono più evoluti e sono stati semplificati in ottica cloud. Fino a qualche anno fa identificavamo l’artificial intelligence con Watson: ora con il cloud, i processi di machine learning e le reti neurali si possono comprendere molte più cose ed è tutto più semplice. Non a caso, l’intelligenza artificiale sta impattando in diversi settori. Dalle assicurazioni, che stanno basando tutto sui big data per capire i comportamenti degli automobilisti e stabilire le tariffe delle polizze, allo stesso giornalismo, che lo utilizzerà per fare fact checking sulle notizie diffuse sui social e ridurre le fake news. Il tema più largo del riconoscimento sarà secondo me fondamentale. L’auto senza pilota si basa su sensori di riconoscimento delle immagini. E ancora, il riconoscimento di impronte digitali, volti, audio, testi, livelli di inquinamento selfdriving diventerà sempre più importante ed è legato all’intelligenza artificiale. Persino l’agricoltura – penso al drone che ho regalato a mio fratello agricoltore per monitorare la qualità del raccolto – si concentrerà sul riconoscimento. Inoltre, l’intelligenza artificiale può essere una grande chance proprio per l’Europa. Ho scoperto per esempio che l’headquarter di Facebook su questi temi è a Parigi. Io mi aspetterei molti più dottorati di ricerca dedicati a questo tema, startup – anche italiane – che si occupano di AI e machine learning legate a medicina, finanza e altre aree.
Eppure di startup italiane che si occupano di queste cose ce ne sono ben poche. Come le sembra l’ecosistema delle nuove imprese in Italia?
Sta crescendo ma sconta un limite: gli imprenditori. Come diceva Federico Marchetti proprio su EconomyUp, non ci sono nuove Yoox. Molto spesso, chi fa impresa innovativa non ha ambizione internazionale. Soffre di quella che io definisco la sindrome del “.it”: siti, app, piattaforme digitali che mirano a risolvere problemi relativi a piccole zone in Italia e che sono poco strutturati per poter scalare a livello globale. È un problema generazionale: ci sono troppi imprenditori provinciali, che puntano solo al mercato italiano, non sanno parlare inglese, non viaggiano abbastanza per avere una visione ampia del mondo e dei “mondi”. Io quando ho letto sul Wall Street Journal che in paesi del Sudest asiatico come Indonesia e Malaysia la nostra app era più diffusa di Spotify ho preso l’aereo e sono andato lì per capire un po’ meglio quei mercati.
Per sintetizzare il Ciociola-pensiero, il problema quindi non è l’Italia in sé, ma chi fa impresa in questo momento.
Esatto. Anzi, io credo che sull’Italia si possa puntare per tanti motivi. A cominciare da uno: abbiamo una storia imprenditoriale piena di
nomi che si sono imposti a livello mondiale. Ferrari, Lamborghini, le firme del design e della moda… Per elencare le altre buone ragioni per cui si può scommettere sull’Italia per fare impresa mi basta ribattere punto su punto a un articolo che in queste settimane ha fatto discutere: The Italian Startup Dilemma, scritto su Medium (e ripreso il 17 dicembre 2016 su VentureBeat, ndr) da uno stagista – sottolineo uno stagista! – del venture capital Earlybird, Matteo Amerio, che spara un po’ di… diciamo fango sull’Italia.
Primo punto, “too much bureaucracy”, ovvero troppo burocrazia.
Una cavolata. Ultimamente c’è stata una semplificazione enorme di tutte le procedure per creare una startup. Basti pensare che si può costituire una srl senza andare dal notaio. In genere, ci sono molti vantaggi e agevolazioni che in altri Paesi non ci sono.
Secondo: “lack of a startup culture”, mancanza di una cultura delle startup.
Noi non dobbiamo avere una cultura delle startup, ma delle imprese. Concepire prodotti di livello internazionale: siamo un Paese dove la qualità della vita è alta e non possiamo e non dobbiamo diventare come gli Stati Uniti. Non dobbiamo scimmiottare modelli che non sono nostri. Gli americani non esportano cibo come fa Eataly e non hanno fatto Yoox: un motivo ci sarà. Ed è che hanno un dna imprenditoriale diverso dal nostro. Noi dobbiamo valorizzare la nostra cultura di impresa, non quella della Silicon Valley.
Terzo: “lack of a hub”, mancanza di un hub.
Il fatto che non ci sia un vero hub non è un problema così grande. Prendiamo Berlino. La Germania è una vita che punta sulla sua capitale, ma non mi risulta, tolto un po’ Rocket Internet, che lì ci siano grandi unicorni. Ci sono tanti investimenti, è vero. Ma non sono ancora uscite, mi pare, cose straordinarie.
Quarto. “Complexity of work relations”, cioè difficoltà nei rapporti di lavoro.
Macché. In Italia si lavora bene. C’è grande expertise e ci sono talenti che costano poco, o comunque meno che in altri paesi europei.
Quinto. “Strong risk avoidance”, forte tendenza a evitare i rischi.
Gli italiani evitano i rischi? Falso. C’è una miriade di Pmi che hanno fatto successo all’estero che può dimostrarlo. Non c’è paragone con tante altre realtà. Semmai, e in questo riprendo ciò che dicevo prima, la questione è generazionale. È questa generazione che è in ritardo, non vuole prendersi abbastanza rischi e non concepisce progetti che risolvono problemi globali. La mia generazione, quella dei 40enni che hanno fondato imprese come Yoox, Buongiorno, Dada, pensava ancora in grande come gli imprenditori del passato.
Sesto e settimo. “The funding process is difficult” e “It’s really hard to raise capital in Italy”: entrambi significano che è difficile farsi finanziare.
Non è vero. I soldi, quelli bravi, li raccolgono, e anche da investitori internazionali. Perché Moneyfarm è riuscita a raccogliere così tante risorse? Non sarà perché ci sono poche startup che pensano in grande e vogliono fare davvero disruption lavorando su temi come il machine learning? Io conosco i venture capitalisti italiani, da Boni a Di Camillo, da Magrini a Gesess: quando si trovano di fronte a veri imprenditori, ci puntano su. Per questo dicono che la prima cosa a cui guardano è il team: vogliono trovare imprenditori che anche in caso di difficoltà siano pronti a risolverle e a crescere anche puntando idee diverse. Poi, è vero, finché mancheranno le exit, non avremo fondi da 700-800 milioni. Ma il problema è sempre quello: al momento mancano i grandi imprenditori, per questo non arrivano le grandi cessioni o le grandi Ipo. Altro che Italian Startup Dilemma: è che a tante persone spesso poco capaci piace – scusatemi il termine – sputtanare il paese. Con il risultato di creare gente scontenta e demotivata.
Ma ci sono eccezioni in questo panorama? Startup che pensano in grande e che possono puntare al “billion”?
Per fortuna sì. Pensate a realtà come Faceit, nata in Italia, che ha voluto fare un progetto internazionale partendo da qui. I primi risultati li ha raccolti in Italia, ha raccolto risorse anche da investitori del nostro paese e ora ha un team tra Londra e Los Angeles per essere competitiva a livello globale. Un’altra azienda che mi sembra molto promettente e che è attrezzata per scalare a livello internazionale è Musement, che ha cercato di fare disruption nel mondo del travel. Per non parlare di Talent Garden e del suo brillante fondatore Davide Dattoli.
Contandoli, ha elencato sette buoni motivi per fare impresa in Italia. Manca qualcosa?
Sì. Uno vale tanto per l’Italia quanto per gli altri paesi. Sono gli strumenti digitali a disposizione. Io vengo dalla scuola Dada, con Paolo Barberis. Ogni volta che dovevamo aprire una sede all’estero dovevamo parlare con un avvocato, un commercialista e nominare subito country manager. Ora molte di queste operazioni si possono fare da una dashboard: è un’opportunità enorme. Infine, c’è un altro elemento che potrebbe diventare uno stimolo a fare impresa in Italia: è il fatto che il digitale può convincere i figli a prendere in mano le aziende dei padri. Mi ci ha fatto riflettere ulteriormente Massimo Banzi, l’ideatore di Arduino. Creare e-commerce che funzionino come piattaforme in cui portare online artigiani e manifattura può salvare molte attività e motivare i più giovani a tenere in vita, rinnovandole, le imprese dei loro genitori. Se usato così, l’e-commerce può essere una grande risorsa. Mentre, salvo alcune eccezioni come gli shop online del vino, sono più scettico sugli e-commerce verticali che si dedicano a singole nicchie.
In quest’ottica per cui gli imprenditori italiani devono pensare in ottica globale quale valore può avere una personalità come Diego Piacentini in qualità di commissario straordinario per il digitale?
È uno che crede nella disruption. Con Amazon ha fatto cose enormi: dovremmo ascoltare di più persone come lui. Ma è necessario che possa fare il suo lavoro, che è lungo, senza essere disturbato. Credo sia opportuno che abbia “licenza di decidere” e che possa lavorare con la sua squadra per un bel po’ di anni. E per quanto mi riguarda, non dovrebbe farlo pro bono, ma guadagnare più di quanto guadagnava in Amazon rispondendo dei risultati raggiunti.
Abbiamo parlato di grandi trend globali e di imprenditoria innovativa in Italia. Concentriamoci ora su Musixmatch: che anno è stato il 2016 per l’azienda e cosa si aspetta per il 2017?
Il 2016 è stato l’anno migliore: 50% di crescita del fatturato, siamo arrivati a break even, ora siamo un’azienda che ha ricavi per milioni di euro e che fa utili. Eravamo un’impresa che aveva sviluppato un’app consumer e ora siamo soprattutto una data company che vende dati a più di duecento aziende nel mondo e sta costruendo un business internazionale.
Quanto ha inciso la “separazione” da Spotify?
Noi restiamo amici di Spotify e collaboriamo con loro sulla parte mobile. La “separazione” non ha avuto un impatto negativo sul nostro business. L’integrazione su desktop rappresentava un costo importante per entrambi e abbiamo deciso di comune accordo di interromperla. Il problema è più per loro, perché c’è stata molta gente che si è lamentata per la fine del servizio.
Mark Zuckerberg, la scorsa estate, ha menzionato Max Ciociola come esempio dell’imprenditoria innovativa in Italia. Come ha vissuto quel momento?
Al di là della menzione al sottoscritto, è una stata una bella gratificazione per tutto il team. È stato emozionante. Soprattutto per il modo in cui l’ha detto. Ha sottolineato che per quanto possa essere difficile, sia in Svezia – lui tornava proprio dal matrimonio di Daniel Ek, il fondatore di Spotify – che in Italia è possibile fare impresa globale. È stata una risposta decisa ai tanti che si lamentano.