“Nel venture capital destinato alle startup il settore pubblico deve fare la prima mossa, ma poi deve esserci l’iniziativa industriale. Il nostro è un effetto leva: l’attivazione da parte del Fondo Italiano d’Investimento (FII) di un fondo dei fondi di venture capital ha stimolato ulteriori investimenti privati, contributo a creare 55 startup e a dare lavoro a 1286 persone”. Lo dice in un’intervista a EconomyUp Gabriele Cappellini, dal 2010 amministratore delegato del Fondo Italiano d’Investimento, fondo mobiliare chiuso riservato ad operatori qualificati e dedicato ad investimenti nel capitale di rischio delle piccole e medie imprese, che ha tra i suoi primi investitori Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), la quale a sua volta gestisce il risparmio postale. Stiamo parlando, in sostanza, di soldi pubblici che, nel caso del FII, vanno a finanziare, sia pure sempre in co-investimento con soggetti privati, nascenti realtà imprenditoriali ad elevato rischio d’impresa. Giusto? Sbagliato? Cappellini, pistoiese, una carriera trascorsa in gran parte all’interno del Gruppo Banca Monte dei Paschi di Siena, oggi anche membro del Consiglio Direttivo di Aifi-Associazione Italiana del Private Equity e del Venture Capital, ha le idee chiare: “Non siamo mai sottoscrittori di maggioranza ma sempre di minoranza, con la funzione di stimolare l’investimento di terzi. Credo che i soldi pubblici debbano servire a stimolare iniziative commerciali e finanziarie, senza però gestirle direttamente. Il settore deve essere sempre professionalmente delegato a terzi”.
Ci spiega innanzitutto a che punto sono le attività di venture capital del Fondo italiano d’Investimento?
Inizialmente c’era solo il FII, un fondo da 1 miliardo e 200 milioni di euro, che effettuava sia investimenti diretti in aziende (ad oggi sono 37, di cui 29 ancora in portafoglio), che attività cosiddetta di Fondo di Fondi, ovvero di sottoscrizione di altri fondi di capitale di rischio. Nell’ambito di quest’ultima attività nel 2012 decidemmo di destinare una fetta, tra i 50 e gli 80 milioni, anche all’attività di venture capital, una cosa che prima di allora non si poteva fare perché il fondo, sia nella parte diretta che in quella indiretta, era dedicato ad aziende familiari già esistenti. Con questo danaro abbiamo investito in fondi già esistenti e lanciato un programma per investire in fondi di nuova creazione. Questi li abbiamo creati dopo aver girato per una trentina di incubatori in tutta Italia. Da lì, nel 2013, ci è venuta l’idea di puntare su tre ambiti specifici: IT e media, medical device e biotech, meccatronica e robotica. Così abbiamo dato vita a tre acceleratori d’impresa.
Quali?
Il primo, P101, gestito da Andrea Di Camillo, collegato a 10 incubatori, tra cui H-Farm, Nanabianca e altri. Noi abbiamo dato 15 milioni di euro, il primo soggetto che si è aggregato a noi è stato Azimut, che ha investito altri 15 milioni, P101 ne ha raccolti altri (gli stessi responsabili degli incubatori hanno messo soldi) fino ad arrivare a quota 50 milioni. Alla fine del 2015 il fondo avrà una valutazione di non meno di 65 milioni. Con questi incubatori P101 ha una sorta di accordo privilegiato: ogni volta che uno di questi, collegato a P101, incuba una startup e ha bisogno di ulteriori finanziamenti per farla crescere, si rivolge al veicolo finanziario che prenderà una decisione in merito. Così si è creato un network che ha già effettuato numerose operazioni. È un progetto deciso nell’ottica di creare fondi che non devono e non possono permettersi di essere piccoli.
Qualcuno in Italia vuole che i fondi di venture capital restino piccoli?
Ce ne sono. Invece noi riteniamo che questi fondi debbano avere una consistenza adeguata perché devono garantire la sopravvivenza e lo sviluppo della startup. In questa prospettiva, oltre a P101, abbiamo creato United Ventures di Massimiliano Magrini e Mario Mariani , il quale, dopo l’ingresso del Fei (Fondo europeo per gli investimenti), oggi ha oltre 70 milioni di commitment. Questo per quanto riguarda il settore da noi individuato relativo a IT e media.
E gli altri due?
Per Medical device e Biotech, Fabrizio Landi ha fondato Panakes, investitore di venture capital per finanziare società mediche, startup early stage e pmi. Il FII ha già deliberato per 15 milioni e Panakes ha già un committment di oltre 40 milioni. Sul fronte della meccatronica e della robotica stiamo costruendo con Franco Bernabè, ex Ad e presidente esecutivo di Telecom Italia, e con Cesare Sironi, ex direttore Innovazione & Industry Relations di Telecom, Stark Ventures One, fondo di venture capital focalizzato sui settori della robotica/internet-of-things, entreprise innovation (“big data”) e financial information technology. Ha il nostro committment e sta cercando quello di altri investitori. Dopodiché l’anno scorso, in collaborazione con CDP, abbiamo lanciato due nuovi fondi.
Di cosa si tratta?
Un fondo di fondi di venture capital da 150 milioni e uno di private debt. Qui a noi interessa parlare del primo, che è stato sottoscritto in primis da Cassa Depositi e Prestiti per 50 milioni e per ulteriori 10 milioni da altri, tra i quali, solo per fare due nomi, Intesa San Paolo e Credito Valtellinese.
Non siamo ancora giunti a quota 150, ma a mio parere ci arriveremo velocemente. Intanto abbiamo cominciato a operare. Abbiamo sottoscritto Innogest Capital II, i cui partner sono Claudio Giuliano, Stefano Molino, Claudio Rumazza e Michele Novelli di Innogest Sgr, società fondata nel 2005 e da allora dedicata alla gestione di iniziative di venture capital. È stato deliberato l’investimento anche per Primo Miglio di Gianluca Dettori, fondo dedicato allo sviluppo di investimenti in startup digitali partendo dallo stadio di seed, che ancora non si è costituito perché la normativa sulle srg è cambiata l’anno scorso e gli operatori sono al lavoro per adeguarsi al regolamento. Una cosa importante di cui ci siamo resi conto è che in Italia ci sono pochissimi operatori di venture capital.
Voi però avete provato a metterli insieme…
Sì, ma più scendiamo di dimensione più ci troviamo di fronte a dei “battitori liberi”, poco abituati a operare in team. Perciò ci siamo anche chiesti, d’accordo col Fei, come trasformare i business angel che pure ci sono (ex dirigenti d’azienda, ex operatori…) in veri e propri operatori di venture capital. Per questo stiamo creando un progetto che si chiama Caravella, con lo scopo di traghettare questi business angel verso strutture un po’ più complete. In questo caso non daremo i soldi a un team. Se l’investitore privato dimostra di essere bravo e saper fare un deal, nel momento in cui decide di realizzarne uno attraverso un proprio investimento, noi raddoppiamo il committment. In poche parole, lui investe un milione, noi lo raddoppiamo a due. Così lo stimoliamo a investire e creare una squadra. Lo scopo, insomma, è far diventare i business angel dei venture capitalist. A Caravella intendiamo attribuire 15 milioni di euro, altri 15 arrivano dal Fei. È un progetto in fase di costruzione e non ancora deliberato. Stiamo guardando ad altri 6/7 investimenti e pensiamo così di completare la nostra dotazione di 150 milioni. Voglio aggiungere che stiamo stimolando fondi pensione, casse previdenziali e assicurazioni affinché dedichino una parte delle loro risorse al venture capital. L’importante è creare insieme un panel di operatori.
Ha senso che lo Stato intervenga in modo diretto nel finanziamento delle startup?
I nostri sono solo in parte soldi pubblici. Ci sono anche i denari delle banche e di altri investitori. Ma, a mio parere, la domanda che ci dobbiamo porre è: cosa intendiamo fare con i finanziamenti statali? Io credo che debbano servire a stimolare iniziative commerciali e finanziarie, senza gestirle direttamente. Sa quante persone hanno assunto le startup finanziate grazie a fondi come P101, Sofinova, United Ventures? A giugno scorso erano 1286, con 55 società create e un capitale investito di circa 457 milioni di euro. Noi abbiamo messo 80 milioni, ma con questi siamo riusciti a consentire la raccolta complessiva di 457,5. Con il nostro ingresso c’è stato un effetto leva che ha mosso soldi veri, tutti privati. E stiamo bene attenti a non essere mai soci di maggioranza ma sempre di minoranza. Poi c’è l’aspetto culturale.
Parla di comunicazione?
Anche. Bisogna cercare di far capire questo mondo. Se tutti ci muoviamo nella stessa direzione, riusciamo a far passare il messaggio che è importante avere un atteggiamento imprenditoriale. Quando siamo andati in giro per una ventina di incubatori di tutta Italia, abbiamo visto ragazzi che, anche se la loro startup andava male, si trasferivano su un’altra oppure studiavano un’evoluzione della propria. Poi, in futuro, naturalmente qualcuno di questi avrà più fortuna, per altri non sarà così. Ma è un modo importantissimo per coinvolgere i giovani. Per questo va fatta un’operazione culturale non solo da parte nostra, ma anche dei media.
Qual è la differenza tra FII e Invitalia Ventures, il fondo creato dall’agenzia controllata dal Mise con 50 milioni di euro da investire?
In quel caso sono soldi completamente pubblici, per quanto sempre in co-finanziamento con altri. Abbiamo stipulato una convenzione con Invitalia Ventures con la quale ci impegniamo a fare insieme due diligence per nuovi fondi. La struttura guidata da Salvo Mizzi si propone di co-investire sia in startup sia in fondi. Credo che partiranno con le startup ma stanno anche dedicando attenzione a co-investire con i fondi. La strada che abbiamo scelto noi.