Brexit, «ecco perché alle startup conviene ancora venire a Londra»

Nicola Garelli, presidente di iStarter, acceleratore dedicato alle neoimprese italiane che vogliono operare in UK, spiega i motivi per cui la capitale britannica potrebbe restare l’hub europeo dell’innovazione a prescindere dal Leave. «Non cambierà molto, purché non ci sia una stretta sull’immigrazione»

Pubblicato il 07 Lug 2016

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Nicola Garelli, presidente di iStarter

Se Londra esce dall’Ue, ha ancora senso che una startup italiana vi si trasferisca per accedere ai mercati internazionali? Ascoltando i commenti a caldo degli startupper del nostro Paese attivi nella capitale britannica la risposta sembrerebbe essere negativa. Tanto che c’è stato chi, come Davide d’Atri di Soundreef, ha confidato l’intenzione di andar via. Tuttavia il panico non colpisce tutti. Prendiamo il caso di iStarter, la società che accompagna le startup italiane che vogliono fare impresa e trovare investitori a Londra. Facendo da ponte tra Italia e UK, dovrebbe essere la più spaventata dagli esiti del voto. Eppure il suo presidente Nicola Garelli, getta acqua sul fuoco e spiega a EconomyUp che la situazione, anche post-Brexit, potrebbe rimanere molto simile a quella attuale. Dal suo punto di vista, che fa coincidere analisi obiettiva e ottimismo programmatico, Londra resta un eldorado per le startup. Ecco perché.

Come avete reagito al Leave?
Non abbiamo ancora fatto una scelta. Abbiamo deciso di attendere e di mantenere un approccio molto cauto. Ci aspettiamo che in questo periodo l’incertezza e la volatilità aumentino. Ecco perché preferiamo non prendere nessuna decisione di breve periodo.

A oggi quali sono i vantaggi che ha un cittadino Ue nel lanciare un’attività imprenditoriale a Londra rispetto a chi proviene da un Paese al di fuori dell’Unione europea?
Un cittadino comunitario ha accesso alle facilities nel Regno Unito come se fosse a casa propria. Non ha bisogno di permessi, non ha problemi nell’aprire un conto corrente, può interagire con le strutture governative esattamente come farebbe con quelle domestiche. Viceversa, a meno che non provenga da un Paese con cui ci siano specifici trattati sull’immigrazione, un cittadino extracomunitario incontra più ostacoli, dalla necessità di permessi di soggiorno alla difficoltà di relazionarsi con l’ecosistema burocratico amministrativo.

Se il Regno Unito uscisse effettivamente dall’Ue, una struttura come iStarter potrebbe “riqualificarsi” come accompagnatrice di startup europee a Londra?
Certo, continueremmo a fare in modo ancora più evoluto il lavoro di soft landing (letteralmente “atterraggio morbido”, ndr) che già facciamo con le startup italiane, che al momento costituiscono i tre quarti della nostra platea, e di altri Paesi che vogliono operare a Londra. Noi però prevediamo uno scenario non troppo diverso da quello attuale, quindi non escludiamo di continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto senza stravolgimenti.

In altre parole, consigliereste anche adesso a una startup italiana di operare in UK. Perché questa fiducia nonostante la Brexit?
Se UK dovesse realmente uscire dall’Ue – e non è ancora così scontato – io credo che Londra potrebbe rimanere comunque la capitale europea delle startup. E i motivi per essere fiduciosi sono tanti. Dal punto di vista commerciale, il Regno Unito farà di tutto per mantenere un accesso pieno al mercato comune. In ambito finanziario, è molto probabile che l’establishment della City, a cominciare dalle grandi banche, avrà un’influenza determinante durante i negoziati: faranno in modo che Londra resti l’hub della finanza europea, nonostante un lieve spostamento del baricento verso Francoforte.

Resta però il problema dell’immigrazione. Risulta difficile pensare che Bruxelles accetti condizioni vantaggiose per Londra e allo stesso tempo conceda al Regno Unito di imporre norme restrittive relative agli accessi.
Ritengo molto probabile che si arrivi a una soluzione per cui si faranno trattati diversificati a seconda dei Paesi di provenienza, tali per cui i cittadini di Paesi come Italia, Francia, Germania, Spagna e gli Stati scandinavi abbiano libero accesso al territorio britannico come adesso mentre per qualche Paese dell’Est verrà prevista qualche limitazione. In sostanza però la situazione non sarà molto diversa da com’è ora.

Leggi anche Cimminelli (iStarter): “Con la Brexit sarà più difficile trovare talenti”

A sentire gli orientamenti attuali dei politici Ue, questo scenario sull’immigrazione non sembra così praticabile. Ma diamolo per buono fino a prova contraria. Quali sono gli altri motivi per cui consiglierebbe comunque a una startup Ue di fare affari a Londra?
Cominciamo con l’accesso ai mercati. Per operare su quelli anglosassoni – e il discorso non vale solo per le startup digitali – Londra resta il migliore punto di partenza perché il Regno Unito ha stipulato trattati particolari con i Paesi del Commonwealth che rendono più semplici gli scambi con mercati importanti come India, Australia, Sudafrica, Canada. E allo stesso tempo, le relazioni preferenziali con gli Stati Uniti facilitano l’accesso al mercato oltreoceano. Stiamo parlando di circa 2 miliardi e mezzo di persone. A questo c’è da aggiungere l’ecosistema locale londinese, che è pieno di innovatori che non avranno problemi a continuare la propria attività.

Sì però uno scenario diverso non si può non considerare: cosa fareste se il Regno Unito tenesse fede alle proprie intenzioni di chiudere le frontiere e richiedesse permessi di soggiorno a tutti i cittadini non-UK intenzionati a trasferirsi a Londra?
In questo caso, Londra diventerebbe effettivamente meno attraente. Se si riducessero gli ingressi e contemporaneamente dovessero arrivare meno investimenti su Londra, a quel punto potremmo considerare di ribilanciare le nostre attività in altri Paesi. A fine anno iStarter avrà circa cento partner, che nel complesso coprono aree che vanno dagli Stati Uniti al Far East, dall’Europa al Canada. Supporteremmo le startup che vogliono cercare investitori e internazionalizzarsi puntando di più su altri mercati.

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