I tre errori più comuni quando si decide di fare una startup? “Non capire che non basta essere ‘smanettoni’, non avere il senso dei propri limiti e puntare solo ai soldi: nessuno è disponibile a pesanti sacrifici con il solo miraggio di diventare ricco, la vera spinta è la passione”. Questi i consigli agli startupper di Andrea Dusi, che startupper lo è stato e che ora, a 38 anni, è amministratore delegato del Gruppo Wish Days, oggi conosciuto soprattutto per i cofanetti regalo Emozione3.
Dusi parla con cognizione di causa perché qualche piccolo errore l’ha commesso anche lui: la sua prima start up, fondata nel 2003, è fallita. Si chiamava OneSlicy e produceva t-shirt con una manica lunga e una corta. Poi ha deciso di riprovarci e, con Cristina Pozzi, ha fondato nel 2006 Wish Days, inizialmente il primo sito italiano di vendita di esperienze regalo. Oggi è un gruppo da 40 milioni di euro di fatturato l’anno. Dusi sta sperimentando una certa notorietà giornalistica per aver creato il blog “startupover”, dove racconta le storie di alcune neo-imprese che non ce l’hanno fatta e addirittura profetizza la fine di Facebook. “Ovviamente non è possibile stabilire a priori il successo o l’insuccesso di un’iniziativa e trovare la formula magica per la riuscita di un’impresa – dice l’imprenditore originario di Verona – ma si possono individuare gli ingredienti sbagliati. Siti che danno consigli ce ne sono, io punto ad analizzare i fallimenti per arrivare a capire come evitarne di nuovi”.
Quindi cosa distingue una start up “fake” da una “real” (per usare il linguaggio da social network)? “Fare una start up – dice Dusi – significa fare impresa. Non basta un bravo programmatore, non basta essere in grado di scrivere un codice: bisogna sapersi occupare di tutto, dalla ricerca dei finanziamenti, alla gestione della burocrazia al rapporto con la clientela. Anzi una start up deve essere più veloce e flessibile di un’azienda, diciamo, tradizionale. Non basta una buona idea”.
Altro elemento in grado di garantire un ideale “bollino di qualità” ai neo-imprenditori è “la passione”. Secondo il blogger “l’obiettivo di uno startupper non deve essere soltanto diventare ricco, farsi finanziare, farsi incubare. Ai miei dipendenti – dice Dusi – chiedo sempre se sono disponibili a lavorare per i prossimi 3 anni senza farsi nemmeno un giorno di vacanza. Tutti gli imprenditori fanno così. Chi si mette in testa di fondare una start up esclusivamente per diventare ricco non ce la farà mai a sopportare tutti i sacrifici che questo comporta. Deve essere una missione, devi credere che puoi cambiare il mondo con la tua azienda, devi ‘sentirla’, viverla giorno per giorno, cambiare con lei: è come fare un figlio”. E comunque a suo dire è “utopistico pensare di fondare un’azienda in Italia per poi rivenderla, perché non ci sono investitori stranieri, la Borsa è asfittica ed è difficile attirare capitali esteri con le nostre complicazioni fiscali”.
Infine un errore comune è nella auto-valutazione delle proprie potenzialità. “Incontro alcuni startupper che mi dicono: se ce l’ha fatta un ragazzino come Mark Zuckerberg posso farcela anch’io. Ma Zuckerberg era studente ad Harvard, una delle migliori Università del mondo, aveva già fondato e venduto aziende prima di creare Facebook, era immerso nell’ambiente stimolante e iper-creativo della Silicon Valley e soprattutto è un genio puro. Lasciamo stare i geni: ognuno si confronti con le proprie capacità”.
Nel suo sito Andrea Dusi fa anche i nomi delle start up che, a suo dire, sono a rischio fallimento. E ce n’è una italiana: I’m Watch, neo-impresa che produce smartwatch in grado di connettersi allo fallite o che smartphone via Bluetooth e avere chiamate, sms, email, notifiche e qualsiasi app direttamente al polso. “Falliranno – sentenzia – perché sono troppo lenti nel time-to-market, il prodotto non è all’altezza delle aspettative create dagli annunci pubblicitari e si muove in un ambiente popolato di grossi competitor quali Samsung e Apple”. Vedremo se la profezia si avvererà.