Coca party, stalking, molestie, spese folli, etica zero: ecco la raccolta di Gizmodo sulle storie imbarazzanti (e anonime) che nessun venture capitalist vorrebbe mai sentire. Ce ne saranno anche in Italia?
IL CEO STALKER
Una giovane donna, ambiziosa e brillante, trascinata in un incubo surreale tra ragazzi perennemente su di giri e fumose definizioni del proprio lavoro. “Non sapevo in cosa mi stavo cacciando”, racconta K., “ma io ero la cucciola del marketing, che potevo dire?”.
Ben presto però la situazione si fa drammaticamente chiara: quella startup che sostiene di occuparsi di automazione delle vendite “è una truffa tecnologica, da far impallidire The wolf of Wall Street”.
Fissato col look e con la nuova arrivata, a cui concede benefits assurdi, il CEO sarebbe veramente degno di un film dei frateli Coen. È lui a incoraggiare l’uso di droghe tra i dipendenti e a chiedere loro un aiuto a trovarle, il business non decolla, le risorse umane insultano la nuova quando decide, con la scusa di riprendere gli studi, di levare le tende. “Mi hanno detto che ero vecchia, ed avevo vent’anni, e che una come me poteva al massimo andare a fare relazioni coi clienti in qualche finanziaria. Addio a tutti”.
IL RUSSO MILIONARIO
Anche questa è una storia decisamente terribile, ma più diffusa di quanto si creda: la grande liquidità dei russi che hanno saputo approfittare del caos post-comunista accelera le ambizioni imprenditoriali e diminuisce il senso del rischio di chi riesce a convincerne uno a finanziare la sua startup.
Così, anche nei migliori hub americani si possono trovare società dove nessuno sa veramente qualcosa di software, ma si pretende di realizzarli in due giorni invece che settimane; al primo round di investimento il boss si presenta con una Bmw fiammante, i nuovi stagisti sono costantemente dimenticati all’aeroporto, il nuovo edificio coworking style con playstation, biliardino e cucina, risulta off limits per i dipendenti: “Le strutture erano lì solo per attirare più investitori, e non per essere usate dai dipendenti”, racconta un anonimo dipendente di una di queste società.
Come poteva finire un incubo del genere? Sia Rudy e Andrew (nomi inventati) venivano di rado in ufficio. Quando lo facevano, sempre tra le 11 e le 13. “Ma non preoccupatevi, avevano installato webcam in tutto l’ufficio per assicurarsi che i dipendenti rispettassero gli orari, ovviamente prendendosela per una pausa più lunga in bagno. La parte più triste di questo lavoro è che ci lavoravano tante persone in gamba: noi tutti lo sapevamo”.
SINTOMI E DIAGNOSI
C. Rogues è più sintetico, ed elenca i tre segnali che dovrebbero farvi prendere velocemente la direzione contraria, quella verso l’uscita. Prendete nota.
– Nessuno ha più di 27 anni. Per forza, è l’età in cui ci si accorge che il posto dove lavori non ha futuro.
– La società promuove continue caccie al tesoro, maratone notturne di hacking con tanto di bevande, ma alcoliche invece che energetiche.
– Il CEO distribuisce ossessivamente il suo biglietto da visita.
Tutto da leggere, G. Orwells, un vero epitaffio dei finti amministratori delegati. “Ho lavorato per una startup europea di Sales Manager. Il CEO si è preso i soldi di un venture e invece di investirli nella società si è comprato un’auto, è andato a meeting facendo collezione di prostitute e fondamentalmente ha buttato dalla finestra tutti i finanziamenti. Naturalmente, la startup è andata a fondo, mentre il CEO se ne è andato in un’altra società. Sembra davvero che non abbia importanza quanto tu sia un cretino, se conosci la gente giusta, vai avanti”.
Anche stillengmc è telegrafico: “Penso che molti startupper siano persone che non sanno lavorare per una impresa che non sia la loro. Certo, alcuni hanno grandi idee, altri vogliono fare un sacco di soldi, altri sono semplicemente stronzi.
Poi ci sono gli oggetti e i progetti improbabili. La startup che si fa pagare solo con quote dei clienti e non paga i dipendenti, quella che vorrebbe commercializzare elastici per i capelli coi led, fabbricati in Cina. Citazione speciale per il social network della solidarietà, buona idea mandata all’aria dal narcisismo dei fondatori che continuamente parlavano di sé stessi. Roba da ammazzarli.
QUELLO CHE GUARDA A GOOGLE PLUS
C’è un’altra categoria pericolosissima nel mondo startupparo: quella dei Ceo che si sentono in concorrenza coi colossi. La storia di L. è emblematica: “Una volta ho dovuto lavorare 18 ore a un programma per un lancio mai avvenuto. Sempre per la solita storia: al capo non piacevano i colori, ma soprattutto Google Plus aveva appena implementato una cosa simile e secondo lui noi avevamo bisogno di competere con loro”.
I GIOCHI SOCIAL
Non ci pensa mai nessuno, ma se fai social gaming legato a una serie televisiva, devi lavorare in giorni e orari tremendi. Come chi, senza neppure nascondersi, racconta del pessimo modo di lavorare nella società che faceva il gioco Facebook della sesta stagione di “Dexter”. Le puntate erano la domenica sera, il lunedì bisognava mettere online il gioco ispirato alla nuova puntata. A metà stagione gli sviluppatori licenziati erano già sei e prima della chiusura delle puntate la società era in rosso. Ironico il commento: “Problemi di organizzazione, certo, ma non ha aiutato il fatto che le persone che gestivano la società non sapevano nulla di social games ben fatti”.
IL PEGGIOR INCUBO: SALTA L’ACQUISIZIONE
Nella vita di una startup c’è un momento nel quale tutto deve andare alla perfezione, come un triplo salto mortale, altrimenti ci si fa male. Si chiama acquisizione. Anzi, per la precisione è quel periodo della due diligence in cui sei formalmente impegnato nella tua startup quando ormai non è più tua.
Se proprio in quel momento succede l’inponderabile, può capitare quel che racconta Haggie, Ceo che ha dovuto licenziare, il giorno prima del Ringraziamento, tutti i suoi ragazzi. Il motivo? “L’amministratore della società che ci stava acquisendo è stato licenziato su due piedi dal suo consiglio. L’acquisizione, che non c’entrava nulla, saltò, noi avevamo speso tutti i dollari che avevamo per pagare gli stipendi durante la due diligence e non ci siamo più ripresi”.
LA FREGATURA DELLE STOCK
Si inizia una grande impresa, da creativo e sviluppatore indipendente, ci si fa pagare in azioni della società. Dopo la fase di startup, i guadagni saranno più alti di uno stipendio. Certo, in teoria. Però chi racconta a Gizmodo la storia della fregatura canadese ha tutto il diritto di non pensarla così.
Lui infatti è il tipico caso di chi, dopo il successo del sito a cui ha contribuito in modo determinante, si trova gli avvocati della nuova società che ha acquisito quella originaria che pretendono restituisca le stock. Il motivo? “Pensavano di intimidirmi, ma il loro problema era che ridisegnare il sito li avrebbe costretti a riconoscere che l’avevo fatto io, e avrebbero speso molti soldi”.
La società se la cava con piccoli accorgimenti e qualche cambiamento di colore, e non restituiscono i due anni di lavoro al designer. Quando sembra fatta per avere i soldi che gli spettavano – la società vende per 65 milioni di dollari, a lui ne spetterebbero 350 mila – scopre che è stato tutto portato in Canada, così da eludere la validità dei contratti e ridurre a zero il valore delle stock. “Mi hanno dato 2000 dollari, che sono diventati meno di 1500 a cause delle tasse canadesi”.
Si dice spesso che anche nel’ecosistema startup italiano giri un po’ di fuffa, e qualcuno si è anche bruciato. Il sistema è sano e i numeri dei finanziamenti in Italia sono molto più bassi di quello americano, quindi meno appetibili, ma storie come quelle raccolte qui potrebbe essere accadute ovunque. Ecco la nostra mail per raccontarle, in forma anonima: redazione@economyup.it