Buona visione a tutti

A che cosa servono le startup se le aziende non se ne curano?

Aumentano le nuove imprese, crescono gli investimenti ma il taglio è ancora troppo sottile. La vera svolta può avvenire solo se il sistema economico nazionale, in tutte le sue articolazioni territoriali, mostra più attenzione verso l’ecosistema. E ne comprende le potenzialità

Pubblicato il 16 Giu 2016

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A che cosa servono le startup? La narrativa più diffusa dice che creano occupazione, anche se ad alta instabilità. A volte realizzano i sogni di successo di qualche giovane intraprendente, altre permettono di far soldi a meno giovani investitori e/o speculatori. Ma il vero contributo che le nuove imprese portano a un sistema economico, e quindi a un Paese, è generare innovazione, diffonderla rapidamente e accrescere la competitività. A patto, ovviamente, che imprese e Paese siano disponibili e pronte. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

È questo il senso che dovrebbe avere il percorso cominciato in Italia quasi quattro anni fa e giunto a un punto di svolta. Una startup policy c’è, perfettibile ma c’è. Un senso comune positivo e curioso nei confronti delle startup è in rapida diffusione, come le startup stesse che vanno ormai verso quota 6mila (solo quelle innovative a termine di legge e iscritte allo speciale registro delle Camere di commercio). I soldi cominciano a circolare: 74 milioni di euro dall’inizio del 2016, secondo una rilevazione di EconomyUp, con un maggio record che da solo ha visto operazioni per quasi 36 milioni.

È una stima certamente per difetto, visto che non tutti gli investimenti vengono regolarmente comunicati, ma indica una tendenza. Basti pensare che l’importo dei primi 5 mesi si avvicina all’ammontare di tutto il venture capital del 2015. Bene, se non fosse che il taglio medio degli investimenti è ancora sottile. Una fetta di prosciutto, quando invece servirebbe una bella fiornetina. I picchi sono fra 7 e 8 milioni, ma la media è ancora sotto i 2. Basta andare oltreconfine per vedere altri numeri. Una startup di italiani in Svizzera riesce a raccogliere 12 milioni (Nouscom) e a Londra arriva a 15 (Faceit). C’è ancora un profondo solco da coprire (e, in questo momento, non pare possano farlo i venture capitalist nazionali). Per non parlare degli Stati Uniti dove si arrivano a investire anche 160 milioni su una startup (Clover Health). Il solco diventa un burrone…

Tocca alle imprese chiudere il cerchio e approfittare degli stimoli, delle proposte e delle sfide che arrivano dalle startup per cambiare rapidamente. In una sola parola devono fare con determinazione open innovation, superando titubanze, pregiudizi e procedure. SI può fare. Molte aziende stanno cominciando, restituendo il significato migliore all’esperienza delle startup che possono diventare un modello di comportamento più adeguato per affrontare con efficacia le incognite della digital transformation. Possono essere in questo caso i giovani a insegnare ai vecchi, il nuovo a mostrare al maturo che cosa fare e come poterlo fare. Qualcosa si muove, anche se ancora troppo spesso sotto la spinta del marketing più che della strategia o degli stessi vertici aziendali. Qualche azienda comincia a considerare le startup come possibili fornitori (ma quanta fatica!). Qualcun’altra come possibile preda. Anche se ancora sono di più gli imprenditori che investono in proprio che non le aziende. Nonostante tutto, sottotraccia, lo shopping è cominciato.

Sembrerebbe tutto nel giusto verso di marcia se non fosse che anche su questo fronte le dimensioni sono ancora da Paese minuscolo. Peanuts direbbe un manager americano, per esempio di General Motors, che per acquisire Cruise Automation e accelerare la marcia verso l’auto senza pilota ha investito 1 miliardo di dollari.

C’è quindi da accrescere l’attenzione delle aziende verso l’ecosistema delle startup. È più facile con quelle grandi, che però hanno tempi di reazione particolarmente lunghi. È più difficile con quelle medie, che però hanno il vantaggio di essere più agili e veloci. Ma spesso non conoscono l’ecosistema, il suo linguaggio, le sue logiche. Perché sono in provincia, nelle trame più fitte di un tessuto imprenditoriale che non è ancora sufficientemente imbevuto. Ecco, ci vorrebbe un bel gavettone di innovazione, che porti fin lì dove stanno le aziende l’acqua del cambiamento. Qualcuno magari si ritrarrà irritato. Ma molti apprezzeranno il senso di freschezza, vista anche la stagione calda in arrivo.

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