Siamo prossimi alla conclusione di un anno di cui difficilmente le generazioni a venire si dimenticheranno a causa dell’unicità degli effetti socioeconomici di una pandemia che ha colto di sorpresa l’umanità, evidenziando così limiti ed opportunità di un approccio timido verso l’innovazione. Per assurdo, la limitata scena startup italiana non è solo stata meno danneggiata rispetto a quella di altri Paesi più maturi, ma potrebbe perfino essere tra quelle più avvantaggiate dalla vicenda.
Il gap storico italiano nel settore è cosa palese, sebbene la visione cruda dello scenario sia poco chiara a chi non è addentro al settore: imprese tradizionali che si auto denominano ‘startup’ per godere dei benefici di legge, PMI che di innovativo hanno solo il nome, confusione sui modelli organizzativi e di funding, investitori di ogni stage che non si vergognano di pretendere quote di maggioranza, consulenti che si spacciano per incubatori, incubatori che si autodefiniscono acceleratori, ‘venditori di business plan’ un tanto al chilo, fondi di venture capital che operano come private equity di piccolo taglio…
Di fatto il presunto ecosistema italiano è occupato da decine di soggetti che scimmiottano termini e movenze della filiera del venture business – che altrove è l’elemento abilitante per il successo delle startup – per mascherare che fanno tutt’altro, e così tirare su all’amo sprovveduti ed ingenui a cui vendere qualcosa a caro prezzo. Non che manchino operatori ‘veri’, ma saperli distinguere è cosa da esperti, e chi non lo è ha più probabilità di finire su un binario morto pagando un biglietto costoso che non di instradarsi nel già difficilissimo percorso della scalabilità venture-backed.
E sì che di italiani di talento e capaci non mancheremmo, ma piuttosto che affrontare questo Vietnam i founder italiani finiscono per fuggire, ed è così che gli unicorni italiani di cui tanto sentiamo la mancanza sono in realtà fin dal principio espatriati per diventare dei fieri unicorni statunitensi, britannici, francesi e tedeschi.
È internazionalmente noto che un ecosistema startup ‘sano’ poggi su cinque pilastri fondamentali: talento, cultura, densità, accesso al capitale e cornice normativa. Un bilancio di questo anno, ma ancor più di questo decennio, evidenzia come siamo ricchissimi di talento e capitale, che difettiamo un po’ di densità e di una buona cornice normativa, ma anche che viviamo soprattutto il peso di un dramma culturale: è il gap di conoscenza a fare sì che talento e capitale nel Paese non si incontrino.
Avendo potuto ‘studiare’ il settore nell’arco del decennio 2000-2010, ed avendo poi potuto confrontarmi con le organizzazioni di ecosystem building di mezzo mondo con cui ho co-fondato l’organizzazione globale di advocacy del movimento startup, ho sempre avuto molto chiaro come la conoscenza chiara e profonda delle cosiddette ‘best practices’ fosse la sola chiave vincente, e sulla diffusione di queste ho sempre posizionato il timone nel guidare Roma Startup, l’associazione che ho contribuito a far nascere insieme agli altri stakeholder del nascente ecosistema della Capitale all’inizio di questo decennio, e di cui in questi giorni completo il mio secondo entusiasmante mandato da Presidente.
Le ‘best practices’ furono il mantra quando con altri associati fummo chiamati a costituire la Commissione Startup della Regione Lazio nel 2014, esperienza tramite cui tracciammo le linee strategiche territoriali da cui scaturirono strumenti fondamentali come il bando pre-seed, il fondo di fondi e il fondo di co-investimento in venture capital gestiti da Lazio Innova, che stravolgevano i precedenti storici modelli di erogazione a pioggia di finanza pubblica e adottavano invece modelli virtuosi di selezione basata su criteri di mercato e presenza di coinvestitori privati qualificati.
Non si parla ancora abbastanza della lungimirante scelta di esplorare strade nuove fatta dalla giunta Zingaretti, e che ha portato evidenze talmente eccezionali – il Lazio è la prima regione italiana per finanza agevolata erogata alle startup, in misura sei volte maggiore della Sardegna che è quella che segue più da vicino – da farle replicare a livello Nazionale da parte del Governo: l’equivalente del bando pre-seed è stato appena lanciato con il Decreto ‘Smart Money’, mentre un fondo di fondi ed un fondo di co-investimento in venture capital simili a quelli regionali sono gli strumenti centrali della strategia di CDP Venture Capital, insieme alla qualificazione dei coinvestitori.
Il 2020 è stato quindi l’anno in cui è diventato possibile portare su una scala maggiore le metodologie di settore, con impatto sul Paese intero e con dotazioni finanziarie finalmente importanti, sebbene ancora insufficienti se ci confrontiamo con le nazioni a noi più simili e vicine.
Il cambio di passo è accaduto in parte grazie ad una classe politica più attenta all’innovazione non più intesa solo come sostegno all’acquisto di strumenti tecnologici da parte delle PMI ma finalmente vista come il terreno di nascita di nuove imprese, e in gran parte grazie alla inedita collaborazione tra associazioni di settore che si sono allineate nel collaborare con il Governo intorno alla richiesta congiunta di una serie di azioni di politica economica non più autoreferenziate e funzionali ad una lobby anziché ad un altra come in passato, ma disegnate per perseguire le logiche del venture business internazionale in chiave trasversale e sistemica.
Prima ancora che si parlasse di Next Generation Funds, quindi, associazioni e Ministero dello Sviluppo Economico si sono trovati in totale sintonia nel ragionare di azioni volte a guardare avanti con fiducia, giocando d’attacco verso l’economia del futuro, con il Governo per la prima volta in grado di mettere sul piatto risorse finanziarie per innescare un ciclo virtuoso che vada a colmare il fallimento di mercato di cui soffre tutt’ora l’Italia nel generare nuove tech-company ad ambizione globale.
Il 2020 dell’ecosistema startup italiano è ben più rilevante di quel 2012 quando fu promulgato lo Startup Act: sebbene il rumore di fondo generato da occupatori abusivi della scena sia ancora molto forte, sebbene la conoscenza diffusa delle best practice sia ancora limitatamente concentrata in pochi poli di eccellenza, e nonostante si senta la grave mancanza di una cabina di regia nazionale che coordini meglio e con maggior velocità la rincorsa che dobbiamo fare sul resto del mondo, la grande novità è che le azioni di sostegno pubblico a questa parte di economia iniziano ad essere quelle corrette, ed essendo quelle corrette avranno l’effetto di educare ai modelli di interazione e co-creazione di valore già collaudatissimi altrove. Perché solo di questo si tratta: adottare modelli che hanno studiato ed importato tutte le nazioni che fino ad oggi sono riuscite a generare con successo delle gemmazioni della Silicon Valley: un luogo che di ‘diverso’, rispetto all’Italia, ha principalmente la cultura.