Omnicanalità e sostenibilità sono le due parole chiave per il futuro del retail, e del fashion in particolare. “Due sfide culturali e tecnologiche che si possono affrontare solo con l’innovazione digitale e traendo vantaggio dalla relazione e dallo scambio con le scaleup, quelle startup con alto potenziale di crescita che stanno dimostrando di saper portare innovazione sul mercato”, dice Massimiliano Vercellotti, Assurance Talent Leader Med e Start up Leader di EY che al tema ha dedicato il primo di una serie di workshop organizzati in collaborazione con il fondo di venture capital P101 e ospitati da EY wavespace, l’hub di innovazione aperto a Milano dalla società di consulenza. “Il venture capital fa crescere nuove imprese che a loro volta possono aiutare le imprese consolidate a fare innovazione in processi e prodotti”, sostiene Andrea Di Camillo, founder di P101, che conosce bene il mondo del retail visto che è tra le sue aree di investimento. Un momento di confronto a porte chiuse che ho avuto il piacere di moderare e nel corso del quale sono emersi spunti e messaggi molto interessanti e non solo l’industria della moda.
Il calo del traffico nei punti vendita fisici
Il dato di partenza per ogni riflessione e previsione sul futuro del fashion e del retail non può che essere uno: il traffico nei punti di vendita fisica è in calo da anni, mediamente del 5%. Una tendenza apparentemente irreversibile. “Non è un tema di brand, di Paese o di posizione: dopo un momento di picco successivo all’apertura, il numero dei clienti che entrano nei negozi diminuisce. Il problema del traffico riguarda trasversalmente tutta la distribuzione. Chi è più bravo cerca di recuperare lavorando sulla conversion e sullo scontrino medio. Ma non è facile”, spiega Antonella Bompensa, Associate Partner, Head of Consumer Products & Retail e Fashion & Luxury di EY-Parthenon (la boutique di EY dedicata alle strategie), che ricorda come parallelamente abbia ormai preso quota il canale digitale ma con modalità che, se ben interpretate, restituiscono centralità al punto di vendita fisico.
Omnicanalità, la nuova centralità dei negozi
«Se chiediamo ai consumatori di parlarci della loro esperienza di acquisto, otteniamo queste indicazioni. Il 30% dei clienti sceglie e compra solo nei negozi fisici; circa il 55% cerca on line il prodotto ma poi lo acquista in un punto vendita fisico; meno del 10% compra on line; i pochi che restano scelgono in negozio e poi comprano on line», dice Bompensa, che sottolinea: “Quindi c’è una forte maggioranza, circa l’85%, che comunque compra ancora in negozio ma lo shopping è sempre più influenzato dal web:nonostante tutto il punto di vendita fisico rimane ancora il cuore delle esperienze di acquisto, il punto di contatto più forte dei clienti con il brand e la base da cui partire per strutturare l’omnicanalità”.
Amazon e i negozi del futuro
Il futuro dei negozi, quindi, non è così incerto come fino a qualche tempo fa qualcuno voleva far credere, tanto è vero che il gigante dell’ecommerce, Amazon, si considera, a ragione un “piccolo player” nel mercato globale del retail. Jeff Bezos nella sua ultima lettera agli azionisti ha scritto: “Da anni abbiamo pensato come servire i clienti in punti di vendita fisici ma prima sentivamo di doverci inventare un modo davvero nuovo di dare il nostro servizio in quell’ambiente. Lo abbiamo trovato con AmazonGo“. La sintesi? “Entra, prendi quello che vuoi e vai”.
Come il digitale deve entrare nei negozi fisici
La questione quindi non è se i negozi avranno un futuro, ma come dovranno essere i negozi del futuro. Quel che sta facendo Amazon è un’indicazione di percorso possibile ma anche una sfida che per le imprese leader nel mondo fisico potrebbe rivelarsi molto molto più impegnativa di quella affrontata sul web. L’innovazione e la relazione con soggetti che possono accelerare la trasformazione necessaria, startup e scaleup, non è più un’opportunità tecnologica ma una necessità strategica. “C’è però da affrontare e superare una resistenza culturale”, spiega Andrea Di Camillo. “E vanno rivisti anche i modelli organizzativi: omnicanalità non significa fare ecommerce e non si può fare vera omnicanalità senza una reale integrazione fra i diversi canali di vendita”.
“Il digitale ti permette e forse ti costringe a ripensare la stessa idea di negozio”, racconta Enrico Casati sulla base della sua esperienza: è cofounder di Velasca, startup che ha creato on line un brand nel mercato delle scarpe made in Italy e ha poi lanciato una catena di negozi, partita da Milano e che arriverà a 20 punti vendita entro la fine del 2019. Come ha fatto? “Prima creiamo una community in una città e poi apriamo il negozio. In questo modo non sarà fondamentale aprire in una zona centrale, perché si è già creata fedeltà al marchio”. Ma comunque c’è un pensiero digitale unico, che permette di prevedere e gestire le diverse opzioni di scelta che ormai sono a disposizione del cliente: comprare on line e ritirare nel negozio; comprare nel negozio e restituire attraverso il sito oppure ancora provare nel negozio e poi concludere l’acquisto on line. Insomma, l’omnicanalità è un modo concreto (e per molti aspetti faticoso) di gestire la relazione con il cliente indipendentemente dal canale scelto.
“Per fare omincanalità bisogna partire dal disegno del customer journey”, conferma Francesco Regis, sales manager di Filoblu, acceleratore di business che aiuta le aziende consolidate a fare il percorso inverso di quello seguito da Velasca: migrare progressivamente dal fisico al digitale in un’ottica omnichannel. “L’approccio digitale non va visto come un progetto tecnologico ma come apertura e richiede la definizione di un modello di business sempre più completo, con l’analisi degli impatti sull’azienda”. A partire dal CRM: un database unico per l’online e offline. Sembra ovvio, ma non è per nulla scontato, né semplice. Ma l’integrazione e la sinergia fra i due canali (fisico e digitale) non può che essere totale se si vuole davvero contribuire al Drive To Store. Insomma, a far si che la gente ritorni a entrare nei negozi.
Sostenibilità e fashion, la crescita dell’attenzione
Insieme con l’omnicanalità altra parola chiave per avere una sempre migliore relazione con i clienti è la sostenibilità, un obiettivo fortemente collegato all’innovazione e all’uso strategico delle tecnologie digitali. “Il fashion è tra le industry che hanno adottato tardivamente pratiche di sostenibilità, mosso all’inizio più da problematiche legate alla propria filiera che dalla volontà di dare valore ai propri brand”, osserva Roberto Giacomelli, Associate Partner, Climate Change & Sustainability Services di EY. Adesso c’è da recuperare, perché il clima nel mercato è cambiato. “Negli ultimi due anni c’è stato un radicalecambio di scenario con alcuni temi di sostenibilità che sono saliti rapidamente nell’agenda del pubblico e dei consumatori, come il climate change e l’economia circolare”.
Che cosa devono fare le aziende del settore? “Ricercare e adottare soluzioni distintive ma coerenti con la propria vision e soprattutto tenere conto dei possibili trade off ambientali”, spiega Giacomelli. Anche perché non esiste il prodotto sostenibile al 100%: “La sostenibilità è complessa”, avverte Nicolas Bargi, founder e CEO di Save the Duck, azienda nota per i suoi piumini, che sta per diventare una BCorporation. “Quando ci avviciniamo alla sfera, fare qualcosa che non abbia effetti sull’ambiente è molto difficile. L’obiettivo vero a cui puntare è creare empatia con il cliente”.
Economia circolare e mercato primario
La sostenibilità, quindi, è un ingrediente strategico per il marketing. Conferma Enrica Arena, cofounder di Orange Fiber: “In alcune nicchie di mercato è diventata fondamentale ma in genere aiuta a creare una relazione emozionale con i clienti, se si riesce a comunicare con semplicità. Si deve infatti partire dall’aspetto emotivo per fare poi accettare un prezzo maggiore: l’accettazione della sostenibilità arriva dopo”. Orange Fiber è una startup che da sette anni sta lavorando alla produzione di un filato prodotto con gli scarti della lavorazione delle arance: ha vinto numerosi premi in Italia e all’estero ma solo adesso, grazie a una campagna di crowdfunding in fase di lancio, avvierà la prima fase di produzione del filato. “La difficoltà resta comunque avere qualcosa che fa la differenza”, conclude Arena. “Noi riceviamo molte richieste di aziende interessate a prodotti ecologici ma non è sempre facile arrivare a definire cosa”.
Il prezzo resta una leva decisiva, è il richiamo di David Erba, cofounder e CEO di Armadio Verde, ecommerce di abiti usati che è stato il primo marketplace italiano nel segmento del reselling. “Il mercato dice che tra qualche anno il reselling, le vendite di abiti usati, varrà più del fast fashion”. Un modello basato sull’economia circolare che mira ad allungare il ciclo di vita dei prodotti in nome della sostenibilità. Una minaccia per le aziende del fashion? “No, ci deve essere integrazione”, risponde Erba. “Armadio Verde lavora lavora sul mercato secondario, quindi è fondamentale che ci sia un mercato primario che funzioni bene. I nostri partner ideali sono quelle realtà che non hanno solo l’ossessione del profitto ma puntano alla creazione di valore”. Che è il giusto approccio per sviluppare una strategia di sostenibilità.