L'INTERVISTA

Francesco Cavarero, CIO Miroglio: “Nel dopo coronavirus i dati ci diranno come sono cambiati i consumi”

“Quando finirà la pandemia e cambieranno i trend sui consumi, leggere i dati diventerà più importante, perché le abitudini e la storia non avranno più alcun valore” dice Francesco Cavarero, CIO del Gruppo Miroglio (tessile e abbigliamento). Per poi descrivere casi di analisi dei dati attraverso l’intelligenza artificiale

Pubblicato il 27 Mar 2020

Francesco Cavavero, CIO Miroglio Group

“Quando sarà finita la pandemia da coronavirus non dovremo fare l’errore di provare a rimettere in moto la macchina produttiva come se nulla fosse. Questo è un tema di dati. Chi sarà bravo a gestirli ripartirà avvantaggiato”. A dirlo a EconomyUp è Francesco Cavarero, CIO del Gruppo Miroglio.

Fondato nel 1947 ad Alba, in provincia di Cuneo, Miroglio è una realtà industriale italiana che opera nei settori del tessile e della moda femminile. È presente in 22 paesi con 37 società e 4 insediamenti produttivi.

In tempi di Covid-19 Miroglio ha convertito parte della produzione alle mascherine. A regime, ne dovrebbe produrre 25 mila al giorno, in esclusiva per il Piemonte.

Naturalmente, anche nel Gruppo Miroglio, come in tutte le aziende italiane, quando l’emergenza sarà finita ci sarà bisogno di una ripartenza a ogni livello, compresa la parte informatico-tecnologica. Il Chief Information Officer di Miroglio Group ne è consapevole: “Faccio fatica a immaginare il dopo, ma credo che, nonostante tutto, saranno estremizzate certe esigenze. Occorrerà perciò fare scelte mirate”.

Come userete i dati nel post coronavirus?

Bisognerà utilizzare tutti i dati connessi alla singola consumatrice. In questi giorni stiamo cercando di mantenere un contatto con le clienti. Il canale di vendita online è vivo e stiamo  lavorando per  vitalizzarlo, così come stiamo alimentando il canale di comunicazione. A un certo punto la pandemia finirà e ci accorgeremo che, nel panorama necessariamente difficile in cui ci troveremo, avrà ancora più forza produrre efficienza attraverso l’utilizzo dei dati. Sarà uno scenario in cui molto di quello che facevamo o sapevamo avrà meno valore. È dunque un vantaggio l’aver costruito strutture in grado di adattarsi velocemente. Ma, attenzione: dovremo essere molto laici nel valutare i dati. Cioè non dovremo fare l’errore di provare a rimettere in moto la macchina come se nulla fosse.

Cosa intende per “lettura laica” dei dati?

Lasciarli “parlare”. Mantenere un contatto con la realtà e non agire su base abitudinaria. Quando cambieranno i trend sui consumi, leggere i dati che arriveranno diventerà più importante di adesso, perché le abitudini e la storia non avranno più alcun valore. Un altro elemento che al momento non conosciamo riguarda le fonti di approvvigionamento di prodotti di abbigliamento, come la Cina. Questo ruolo potrebbe essere rivisto. Per qualche settimana, prima che la pandemia arrivasse in Italia, siamo stati preoccupati solo per l’impatto sulle fonti di approvvigionamento. Poi gradualmente l’emergenza si è spostata da noi. Ma non bisogna dimenticare la prima fase. In questa industry abbiamo una quota importante di approvvigionamento: per qualche settimana non abbiamo avuto idea se sarebbe stata coperta. È una cosa su cui riflettere per il futuro.

Come sta cambiando il modo di usare i dati in un’azienda che ha una natura manifatturiera e un’anima distributiva?

Per esempio nel modo in cui si rapporta con il consumatore finale. C’è un rapporto diretto e tracciato con le nostre consumatrici. Il nostro focus è sul prodotto, i nostri canali sono fisici e digitali. Ma la frequenza delle scelte da fare, sia sul prodotto sia sulla distribuzione del prodotto, si è alzata tantissimo. Il concetto di collezione è un importante momento decisione. Un tempo avveniva due volte l’anno, oggi è un appuntamento più frequente e frammentato nel tempo. L’obiettivo è seguire l’evoluzione del trend di consumo. Da data scientist aspetto sempre l’ultimo momento per avere dati e assumere decisioni. Prima le prendevo  per una vendita che sarebbe avvenuta 6 mesi dopo, oggi per vendite che sono previste da lì a poche settimane. Questo ha cambiato completamente il valore dei dati. Quello che è difficile da far cambiare è l’approccio delle persone ai dati.

La cultura del dato fatica a penetrare in azienda?

La tecnologia c’è, i dati anche, sono persino troppi, ma questo non basta: devono essere di un certo tipo, qualità e devono essere lavorati. Partendo dalle vere esigenze.

Quali esigenze per un fashion retailer?

Bisogna partire dai prezzi. È un mercato che storicamente ha goduto di alti margini, il tema della gestione dei prezzi è diventato importante. Per quanto riguarda la distribuzione, in Miroglio Group abbiamo una  molteplicità di prodotti, taglie ecc. che dobbiamo gestire tenendo conto di micro-differenze a livello territoriale, di clima e così. È impossibile farlo “a mano”. Qui viene in soccorso l’intelligenza artificiale, quella che una volta chiamavamo big data: la capacità di leggere i dati senza schemi precostituiti.

Ci può fare un esempio?

Motivi, il primo brand fast fashion in Italia, nato nel 1993, ha scelto l’intelligenza artificiale per adeguare l’offerta delle sue collezioni alle esigenze della clientela e ottimizzare la gestione dei suoi punti vendita, 280 negozi monomarca in 13 paesi.

Come è entrata in gioco l’intelligenza artificiale?

Motivi si è affidato a soluzioni di IA per la gestione dello stock e dell’inventario, così come per la gestione delle promozioni, ottenendo un miglioramento dell’integrazione tra attività online e offline. L’efficienza di magazzino è aumentata significativamente, registrando un incremento dei volumi di vendita del 50% e un impatto positivo sul personale di vendita. In particolare l’AI ha fatto il suo ingresso quando è stato deciso di cambiare l’approccio nei confronti di un elemento centrale del nostro lavoro, la previsione. Gli algoritmi previsionali possono essere di vario tipo, noi ci siamo rivolti ad algoritmi previsionali di machine learning. Abbiamo adottato un modello in cui si tende a inserire nel sistema molti dati ed è la macchina a cercare correlazioni e legami causali, senza che vengano descritti a priori. È stato come “far vedere alla macchina i prodotti”. Per l’essere umano che quel prodotto lo vende diventa tutto più facile.

Una svolta anche culturale?

Decisamente. Ci sono risultati che vanno oltre il dato numerico e sono rappresentati dalla crescita culturale e professionale delle nostre risorse umane. L’introduzione di soluzioni di intelligenza artificiale ha portato all’acquisizione di nuove competenze analitiche che consentono di raggiungere traguardi più sfidanti, valorizzando in modo ottimale il tempo e le capacità di ciascuno.

Competenze da usare anche all’indomani della fine della pandemia?

Certo. Nel frattempo noi, con i colleghi della direzione dei sistemi informativi, siamo stati chiamati a tenere viva l’azienda e farla continuare a lavorare. Avevamo esperienze recenti di schemi di smart working dedicati a manager e risorse umane. Sono stati estesi.

Altri effetti collaterali del Covid-19?

Abbiamo dovuto scendere a compromessi con le regole e rivalutarle. In questi giorni ci possiamo permettere meno problemi sulla sicurezza, ma c’è chi sta approfittando della situazione di stress per mettere in atto truffe telematiche. Stiamo cercando di ottenere la massima flessibilità tenendo conto che ci sono rischi a livello di cybersecurity. Nel nostro caso è importante non consentire l’accesso alla rete interna dell’azienda da parte di esterni. Quindi no ai pc personali. Inoltre stiamo accelerando le misure di rafforzamento della sicurezza sulla posta elettonica, la breccia più delicata e più usata dai malintenzionati.

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