IL CASO

Deliveroo in Borsa: ecco cosa ha affossato il debutto sul mercato della società di food delivery

Il titolo di Deliveroo in Borsa, a Londra, è arrivato a perdere il 30% nel giorno dell’IPO, il 31 marzo. Perché? I “colpevoli” vengono indicati nella struttura azionaria, che concentra il controllo nelle mani dei fondatori, e nell’atteggiamento dell’azienda nei confronti dei rider

Pubblicato il 31 Mar 2021

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Può una questione di sostenibilità affossare il debutto in Borsa di un’azienda? È quello che si stanno chiedendo gli investitori dopo il pessimo debutto di Deliveroo in Borsa, a Londra: la società di consegna di cibo a domicilio era stata definita “un’autentica storia di successo tecnologico britannico” dal ministro delle Finanze inglese. L’IPO (Initial Public Offering), fortemente voluta dall’azienda a Londra e letta in anticipo come un trionfo della finanza britannica post-Brexit, non si è rivelata all’altezza delle aspettative. Il titolo è arrivato a perdere il 30% nelle prime battute della seduta rispetto al prezzo di collocamento (3,9 sterline), che già era stato fissato al limite inferiore del range di prezzo deciso in sede di IPO. La piattaforma di food delivery ha comunque raccolto 1,5 miliardi di sterline per una capitalizzazione di 7,59 miliardi. Ma, nei mesi precedenti, era stato auspicato il raggiungimento di quota 10 miliardi.

Vero è che, nei giorni precedenti all’IPO, almeno sei società di investimento avevano dichiarato pubblicamente che non avrebbero investito in Deliveroo. Tra queste Aviva Investors, Rathbones,Legal & General e Standard Life Aberdeen. L’esito dell’IPO non è stato dunque una totale sorpresa.

I “colpevoli”del tonfo di Deliveroo in Borsa sono stati individuati principalmente nella struttura azionaria consentita dalle nuove regole emanate dal governo inglese e nella cattiva fama che si è creata la società per il trattamento dei suoi lavoratori. Questa, appunto, una questione di sostenibilità. Eppure il business prometteva ulteriori margini di espansione.

Fondata a Londra nel 2013 da Will Shu e Greg Orlowski, la ex startup su cui ha investito anche Amazon ha sperimentato una forte crescita in conseguenza della pandemia. Ma anche prima dell’emergenza sanitaria, nel 2019, i ricavi operativi erano aumentati del 62% a 771,8 milioni di sterline (1,1 miliardi di dollari). Nel suo ultimo round di finanziamento, a gennaio 2021, è stata valutata oltre 7 miliardi di dollari. A marzo 2021 la decisione di lanciare un’IPO a Londra. L’annuncio è arrivato il giorno dopo che il ministro delle Finanze del Regno Unito, Rishi Sunak, aveva dichiarato di essere pronto a riformare le regole per la quotazione: un allentamento delle regole borsistiche della City per venire incontro alla concorrenza europea dopo la Brexit.

Deliveroo in Borsa, la struttura azionaria

Proprio questo sembra essere stato uno degli elementi che ha contribuito all’insuccesso dell’IPO. La riforma del regolamento ha consentito a Deliveroo di offrire azioni di due classi diverse. Questa struttura azionaria, che in genere dà ai fondatori maggiore peso nel voto degli azionisti, sarà in vigore per 3 anni e permetterà al founder Will Shu di mantenere il controllo della compagnia pur detenendo solo il 6,3% del capitale. Le azioni di classe B, ognuna delle quali varrà per 20 voti, sono tutte nelle tasche di Shu, mentre le azioni di classe A, che varranno un voto ciascuna, saranno distribuite ai sottoscrittori. Così Shu manterrà il 57,5% dei diritti di voto per tre anni dalla quotazione, quando tutte le azioni di classe B saranno automaticamente convertite in titoli di classe A. Evidentemente questo meccanismo non ha accolto il favore degli investitori.

Rider, la rivolta contro la gig economy

L’altra questione che probabilmente ha pesato sul debutto di Deliveroo in Borsa riguarda il trattamento dei rider. Da varie parti del mondo (Italia compresa) si sono levate proteste per come vengono gestiti e pagati questi lavoratori dalle diverse società di food delivery (non solo Deliveroo): sfruttamento, carenza di condizioni di sicurezza, precarietà. Un tema che mette sotto accusa la gig economy, l’economia dei “lavoretti”, e che è ancora più sentito ora che sta emergendo un’attenzione sempre maggiore alla sostenibilità. Vengono considerate aziende sostenibili quelle che non solo contribuiscono a ridurre o contenere l’impatto ambientale, ma che si dimostrano eque e attente alla tutela dei dipendenti.

Nell’ultima settimana il Bureau of Investigative Journalism ha pubblicato un’analisi dei guadagni di 300 rider di Deliveroo, sulla base delle loro “buste paga” volontariamente presentate online: è emerso che almeno due terzi avevano guadagnato meno del salario minimo.

Nel frattempo IWGB, un piccolo ma agguerrito sindacato dei lavoratori della gig economy, sta chiamando a raccolta i rider di Deliveroo per portarli a scioperare il 7 aprile, quando l’azienda aprirà agli investitori retail. Ha inoltre pubblicato un documento in cui consiglia ai potenziali sostenitori di richiamare l’azienda alla tutela dei diritti dei rider.

Anche in Italia il food delivery è salito al centro delle cronache con il tema del contratto di lavoro dei rider. La procura di Milano ha obbligato le principali aziende del settore ad assumerne 60mila, solo pochi giorni dopo che Just Eat aveva annunciato di essere pronta a regolizzarne 4mila con contratto di lavoro subordinato a partire da marzo.  Il contratto da lavoro dipendente prevede un compenso orario, ferie, malattia, maternità/paternità, indennità per lavoro notturno, festivi, coperture assicurative, formazione obbligatoria relativa a codice della strada e sicurezza per il trasporto del cibo e tutele previdenziali.

Vedremo se un business come quello del food delivery, dove i margini di guadagno sono già non particolarmente elevati, nel lungo periodo sarà sostenibile anche economicamente. (L.M.)

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