Crisi dei negozi: “Non serve la realtà virtuale, ma startup che sappiano raccontare un brand”

Andy Austin di Rex Retail, startup che gestisce tool per collegare punti vendita e acquirenti, dice a EconomyUp: “In un luogo fisico le persone cercano rapporti umani, non visori o schermi. I contenuti digitali aiutano a mettere nelle mani del cliente la storia di un marchio. Per questo è importante l’open innovation”

Pubblicato il 18 Lug 2017

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Qual è il futuro del retail? Di certo non la realtà virtuale. Meglio puntare sulla valorizzazione dell’esperienza reale attraverso tool digitali in grado di creare interconnessione tra il cliente e il marchio. L’attenzione dei retailer e dei brand deve rimanere focalizzata sull’esaltazione degli aspetti emozionali e dei rapporti umani, elementi fondamentali per preservare l’attrattività di ogni punto vendita, dal grande magazzino alla piccola bottega di paese. Così vede il futuro delle vendite al dettaglio Andy Austin, presidente di The Industrious e direttore esecutivo di Rex Retail, una startup che si occupa di tutto l’apparato digitale (tool, contenuti, analisi) per creare un filo diretto tra punti vendita e acquirenti, ospite a Milano del Retail Institute, in occasione dell’evento “Retail Tomorrow” che ha visto coinvolti operatori nazionali ed internazionali per discutere dell’evoluzione, innovazione e rivoluzione del settore.

Andy Austin, direttore esecutivo di Rex Retail

“Negli ultimi anni – sottolinea Austin, che vanta una lunga esperienza in aziende del calibro di AT&T, Subaru, Kia, La-Z-Boy, HTC, Audi, Microsoft and JCPenney – si è voluti essere disruptive ma nella direzione sbagliata. La realtà virtuale e il self service eliminano l’aspetto umano ed emozionale dell’esperienza d’acquisto in negozio. Molti brand che hanno investito nella realtà virtuale nei loro negozi, si sono accorti dell’errore. Supponiamo che io decida di spendere soldi per la benzina e tempo per recarmi nel tuo bellissimo negozio. Tu hai speso migliaia di euro per curare il design di questo negozio e poi mi costringi ad indossare un paio di occhiali che non mi fanno godere nulla dello spazio circostante. Deprimente. Per non parlare del self service. Perché dovrei scegliere da uno schermo ciò che voglio, potendolo fare comodamente dal divano di casa mia? Pensano di offrire un’esperienza innovativa, ma da un punto di vista errato e pensano di poter eliminare il personale risparmiando soldi. Dimenticano che le persone si recano in negozio spinte da alcune motivazioni, come la ricerca di condivisione e confronto. Se togli questi elementi non ti rimane nulla”.

La rivoluzione è sì nel digitale, ma inteso come strumento per veicolare delle storie e dei contenuti che possono anche essere mischiati, modificati e condivisi. “La vera rivoluzione è creare tool in grado di mettere tutta la storia di un brand nelle mani del cliente. Viceversa, devono poter restituire il feedback del cliente all’azienda. Ogni volta che entri in uno store, prendi un abito e ne scarti un altro, stai producendo una serie di informazioni preziose che, però, senza tecnologia rimangono inascoltate. Ora è possibile, tramite app, sapere che il consumatore è nello store, se è attratto da una cosa piuttosto che un’altra. Si instaura una sorta di conversazione con il brand che, se ben interpretata, può permettergli di rendere l’esperienza del consumatore più personalizzata. Big Data è una parola terribile che spaventa molte persone perché pensano significhi una mole di dati sconnessa, ma non è così”.

Se ai brand è stato chiesto lo sforzo di “pensare digitale” per aprirsi al mondo del web e dello shopping online, ora viene chiesto di fare un passo ulteriore: creare contenuti digitali e personalizzabili in base alle esigenze di un cliente. Una delle certezze del settore moda, ad esempio, è che si decide di comprare una camicia, non per il capo in sé ma per quello che rappresenta (valori sociali, immaginario collettivo, appartenenza ad un gruppo). Se l’azienda è in grado di comunicare la propria storia e i propri valori ai propri clienti nel punto vendita, allora lo avrà conquistato per sempre e potrà anche sperare che condivida la sua esperienza sui social. “Per molti decenni – dice Austin – pensavamo che dovessero essere i prodotti a rispondere alle esigenze del consumatore, invece sono le storie associate ai prodotti. Se il processo funziona è un we win perché il cliente è soddisfatto e impara qualcosa di più dal brand, e il brand dal canto suo ha un immenso patrimonio di dati”. Una delle strade per realizzare la rivoluzione del retail è l’Open Innovation . “Sono un grande fan dell’Open Innovation – sottolinea Austin – perché spesso è l’unico modo per essere disruptive. Per le grandi aziende un problema è soltanto uno dei tanti problemi da risolvere. Le startup, invece, nascono appositamente per risolvere i problemi perciò sono più efficaci”.

Questo è ancora più valido in Italia, “dove – dice Austin – tutto è più bello, persino il Disney Store di Milano è più affascinante di quello degli altri Paesi. Non si può sminuire la bellezza del recarsi in negozio, ma bisogna valorizzarla con il digitale”.

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Annalisa Lospinuso

Annalisa Lospinuso, giornalista, orgogliosa delle sue origini pugliesi, ha studiato all'Università Lumsa di Roma e ha lavorato presso diverse testate nazionali, occupandosi di life style, cronaca, politica ed economia e specializzandosi in giornalismo multimediale. Dal 2013 vive a Londra, da dove scrive per Economyup, ICT4Executive.

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