Innovazione & reazione

Uber: a Parigi le barricate, a Pechino gli investimenti

Le violente proteste dei tassisti francesi contro Uberpop e l’autonoleggio diffuso confermano che il caso della società è globale. Così come il suo business. Il fondo cinese Hillhouse Capital Group sta chiudendo un finanziamento da 1 miliardo di dollari. Il nuovo modello economico avanza e non sono più possibili soluzioni nazionali

Pubblicato il 26 Giu 2015

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Potremmo dire che tutto il mondo è paese quando si tratta di reagire al cambiamento. Davanti alla violenta protesta conro Uberpop dei tassisti che giovedì 25 giugno hanno messo a ferro e fuoco le strade attorno a Parigi evaporano i ritornelli sulle corporazioni italiane e sul conservatorismo italico.  Il ‘caso Uber’, con suoi autisti “per caso”, si conferma la pietra di paragone degli sconvolgimenti che sta provocando il nuovo modello economico abilitato dalle tecnologie digitali. Chiamiamola sharing economy, chiamiamola crowdsourcing, chiamiamola come preferite ma resta il fatto che i paradigmi consolidati si stanno velocemente sfaldando e certo non sarà qualche auto incendiata a salvarli.

Quello che è successo a Parigi e dintorni conferma che la questione è globale e, in particolare europea. Il video della pop star Courney Love che vede la sua auto Uber assaltata da inferociti chaffeur rimbalza da Instagram a Twitter e diventa un’efficace sintesi social di due mondi che si scontrano: chi considera ormai normale l’uso dei nuovi servizi di mobilità urbana e chi invece li vede come un fastidio, una minaccia alla propria esistenza.

Evidentemente la soluzione non può essere più nazionale e anche su questo fronte l’Europa dovrà fare la sua parte. Certo, UberPop è una cosa diversa dal classico NCC (noleggio con conducente), che pure limiti di libertà di movimento ha, una cosa non prevista dagli ordinamenti attuali basati ancora su licenze e concessioni. Ne serviranno di nuovi, d’accordo. Ma saranno inutili se saranno pensati solo per alzare argini o imbrigliare un’evoluzione di cui Uber è solo la bandiera più in vista. Uber vende mobilità senza possedere un auto. Airbnb vende alloggi senza possedere una casa. Facebook e Twitter vendono contenuti senza produrne neanche uno. Dovrebbe essere chiaro che sta prevalendo un modello di creazione del valore non previsto dagli schemi tradizionali.

Il ‘caso Uber’ ha ormai dimensioni economiche inimmaginabili fino a poco tempo fa. Stiamo parlando di una startup, chiamiamola ancora così solo per abitudine, che ha visto crescere il suo valore con ritmi spaventosi e che adesso sta marciando velocemente verso un probabile collocamento in Borsa. In questa chiave il Wall Street Journal ha letto, pochi giorni fa, l’investimento di 1 miliardo di dollari che il fondo cinese Hillhouse Capital Group sta per chiudere, raccogliendo un gruppo di investitori interessati a puntare sull’app americana. Lo stesso fondo ha investito 1,5 miliardi di dollari su Didi Kuaidi, che è il principale concorrente di Uber nella Repubblica popolare cinese.  Vi sembra una valanga che è possibile fermare?

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Giovanni Iozzia
Giovanni Iozzia

Ho studiato sociologia ma da sempre faccio il giornalista e seguo la tecnologia . Sono stato direttore di Capital, vicedirettore di Chi e condirettore di PanoramaEconomy.

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