La notizia è di quelle destinate a lasciare il segno. SoftBank, colosso giapponese delle telecomunicazioni, avrebbe avanzato una proposta di investimento da 10 miliardi di dollari per Uber. L’indiscrezione è stata diffusa dal Wall Street Journal, secondo cui SoftBank avrebbe aperto un tavolo di trattative con la società americana di ride-hailing per acquisire, attraverso Vision Fund (il fondo d’investimento tecnologico della società da 93 miliardi di dollari), il 22% delle azioni, a patto di ottenere un forte sconto sulla valutazione. In altre parole Masayoshi Son e soci vorrebbero comprare le azioni di Uber a un prezzo inferiore del 30% rispetto a quello dell’ultimo round di finanziamenti nel luglio 2016, riducendo così la valutazione complessiva della società da 69 a 50 miliardi di dollari.
La proposta ha fatto balzare dalla sedia buona parte degli attuali azionisti di Uber, preoccupati che un’operazione di questo tipo possa “danneggiare” la futura quotazione della società. Tra l’altro Uber arriva da mesi a dir poco complicati che hanno portato prima alla sfiducia del fondatore ed ex amministratore delegato Travis Kalanick e successivamente alla nomina, a sorpresa, dell’ex amministratore delegato di Expedia Dara Khosrowshahi. Alla luce di tutto ciò, come può essere letta la mossa di SoftBank? Lo abbiamo chiesto a Umberto Bertelè, professore emerito di Strategia al Politecnico di Milano e autore del libro “Strategia”.
La notorietà di SoftBank è soprattutto legata all’enorme successo del lancio di Alibaba, sulle cui potenzialità aveva scommesso sin dall’inizio e di cui era divenuta la principale azionista. È legata anche al lancio, qualche mese fa, di Vision Fund: il più grande “tech fund” della storia, che ha già raccolto 93 miliardi di dollari (sui 100 preventivati) e che ha tra i suoi investitori – oltre al fondo sovrano saudita – imprese quali Apple, Qualcomm e Foxconn. Con una disponibilità così elevata, SoftBank – che è tuttora guidata da Masayoshi Son (artefice del lancio di Alibaba) – è “obbligata” a individuare investimenti anche consistenti come quello in Uber, che rappresentano peraltro una percentuale limitata delle risorse del fondo. Vuole comprare Uber? Non credo. Credo piuttosto che, confidando nelle potenzialità di Uber stessa, essa miri a una valorizzazione che la porti a realizzare una significativa plusvalenza nel momento in cui la società sarà matura per l’IPO.
E questo sarebbe un bene o un male per Uber?
È senz’altro un segnale di speranza. SoftBank immetterebbe danaro fresco in una società che vede aumentare i suoi ricavi, ma che continua a “bruciare cassa” per alimentare la crescita e per combattere i suoi “cloni” nelle diverse aree del mondo (quali Lyft negli Stati Uniti e Grab nel sud-est asiatico); SoftBank sarebbe probabilmente anche in grado, rendendo più stabile l’assetto societario, di ridurre lo stato confusionale generatosi all’interno – con la cacciata di Kalanik, con le incriminazioni per sexual harrassment e con le accuse di “furto di innovazione” (in tema di self-driving car) avanzate da Alphabet-Google – e di renderne più incisiva la strategia di espansione.
Gli azionisti non sembrano però averla presa bene
I decrementi di valore sono solitamente poco amati dagli azionisti, ancor più se si ritiene che essi possano risultare dannosi in sede di IPO. Sono poco amati da quei fondi che ogni anno devono aggiornare la valutazione dei loro attivi, e già nei mesi scorsi alcuni di essi erano stati costretti a effettuare un taglio del 15%. Causano ovviamente perdite, anche se solo sulla carta in assenza di vendite, nei bilanci degli investitori che hanno partecipato agli ultimi round di finanziamento (quale il fondo sovrano saudita che ha versato 3,5 miliardi di dollari nel 2016); mentre si limitano a “limare” l’entità dei capital gain per gli investitori della prima ora e dei round successivi.
Dal punto di vista strategico, l’ingresso di SoftBank significa rilanciare Uber in oriente?
Per quanto riguarda la Cina ritengo che il discorso sia chiuso: poco più di un anno fa, Uber ha dovuto vendere il ramo cinese della società ai rivali di Didi Chuxing (in cambio di una quota del 20% della stessa), per cui i giochi lì sono fatti. Mentre è ancora tutta da disputare la partita per l’espansione in India e Indonesia, dove il mercato è in crescita e dove, spesso, le società locali hanno Didi Chuxing fra gli investitori. E non si è nemmeno chiusa la partita negli Stati Uniti, ove Uber deve fare i conti con un concorrente agguerrito come Lyft, che ha tratto vantaggio dalle difficoltà di Uber stessa e che ha ulteriormente allargato il novero degli investitori (che comprende anche General Motors).
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