Parliamo tanto di ChatGPT e dimentichiamo che per far funzionare quel software, come tanti altri, servono dati, tantissimi dati. “Se ha creato sorpresa e ha avuto impatto, è perché chi lo usa non ha bisogno di vedere il dato, di usarlo e di gestirlo ma ha direttamente le risposte e questo in qualche modo fa superare la paura che ancora i dati procurano”, osserva Raffaele Lillo, da pochi mesi Chief Data Officer di Telepass. “Questo avvicinerà le persone ai dati, anche nelle aziende, ma ancora ci vorrà un po’ di tempo”. Perché è molto di più della “democratizzazione” del dato: “Parlerei di un fenomeno di “sdatizzazione”: non hai più bisogno di guardare e valutare il dato prima di usarlo, perché c’è un software che lo fa per te e ti propone le soluzioni”.
Da anni Raffaele Lillo lavora per usare al meglio algoritmi & analytics sia nella e per la pubblica amministrazione (ha fatto parte del Digital Transformation Team del commissario Diego Piacentini), sia in aziende private (Axa e IGT) e l’anno scorso è stato uno degli speaker all’Economist Impact’s data and analytics forum tenuto a Milano. A chi vuole capire di più sull’uso e il valore dei dati consiglia due letture: “Predictive Analytics” di Eric Siegel (un bestseller sul tema disponibile anche in edizione italiana) e “Lean Analytics. Use Data to Build a Better Startup Faster” di Alistair Croll e Benjamin Yoskovitz, una guida per la validazione dei progetti imprenditoriali delle startup che torna assai utile anche in azienda. Con lui parliamo dell’uso dei dati in azienda, per ottimizzare i processi ma anche per sviluppare nuovi servizi.
Nel suo profilo LinkedIn Raffaele Lillo ha definito un regalo inaspettato il fatto che nel suo discorso di fine anno il presidente Mattarella ha parlato di dati: “La quantità e la qualità dei dati, la loro velocità possono essere elementi posti al servizio della crescita delle persone e delle comunità. Possono consentire di superare arretratezze e divari, semplificare la vita dei cittadini e modernizzare la nostra società. Occorre compiere scelte adeguate, promuovendo una cultura digitale che garantisca le libertà dei cittadini”.
Perché ha trovato un regalo le parole del Capo dello Stato?
Perché è stata la prima volta che a un livello istituzionale così alto viene affrontata in maniera lucida la questione dei dati. Quelle poche parole sintetizzano egregiamente le sfide che abbiamo davanti. Da circa 10 anni ci sono buzz word come big data o machine learning che hanno orizzonti concreti e applicazioni visibili. Ma perché abbiano un impatto reale serve un lavoro di caring, direi quasi di housekeeping, con una gestione più oculata dei dati.
Significa che bisogna lavorare di più sui dati all’interno delle aziende?
Aziende con DNA tradizionale hanno finora gestito i dati con finalità coerenti con i modelli di machine learning, ma come una commodity per far funzionare un sistema gestionale o la reportistica al management. Questo approccio ha segnato le strutture che si occupavano dei dati, che invece nelle aziende native digitali vengono organizzate in maniera diversa.
Come si cambia la governance e l’organizzazione del dato?
Con una grande operazione di change management, che non è semplice. Bisogna andare oltre il concetto della business intelligence verso gli advanced analytics. Ma non è possibile farlo se il modello organizzativo prevede che, ad esempio, un data scientist debba fare richiesta all’IT, che magari è stato svuotato di risorse e quindi la gira a un consulente esterno. Il data scientist deve essere messo in condizione di fare il suo lavoro.
E quali sono queste condizioni?
Quando fai il mestiere di data scientist, spesso non hai una domanda di partenza, ma devi avere il coraggio e la capacità di buttarti nell’oceano di dati e trovare correlazioni a cui magari non avevi neanche pensato. In un ambiente ingessato non riesci a farlo, perché devi uscire e far uscire dalla zona di comfort.
Quindi servono più competenze interne per creare valore dai dati?
“Sì, non è un lavoro che può essere affidato a partner esterni, se si matura un approccio strategico ai dati. Serve una governance adeguata, un endorsement dai vertici dell’azienda e figure che abbiano competenza e talento. È quello che stiamo costruendo in Telepass: entro fine anno nel mio team ci saranno una decina di professionisti che, a tendere, diventeranno circa 20”.
Ecco, i dati nella mobilità: sono usati al meglio?
C’è ancora tanto da fare, anche perché quello della mobilità è un mondo parcellizzato, in cui ciascuno guarda al proprio pezzetto. Mentre un ecosistema come quello creato da Telepass permette di vedere la mobilità attraverso decine di sfaccettature, dal parcheggio allo skipass, dalla pompa di benzina al casello autostradale. C’è una varietà orizzontale di dati, non solo profondità, che aiuta a definire quello che è il lifestyle delle persone.
Dati strutturati o non strutturati?
I dati non strutturati sono testi, immagini o suoni, tutti gli altri sono strutturati o strutturabili. Tutti i dati che vengono dalle operation, quelli che mi dicono che cosa ha fatto un cliente, sono strutturati. La gran parte dei dati che servono, penso a quelli provenienti da applicazioni di IoT, sono strutturati. Alla fine, anche un testo generato da umani ha una sua struttura, ma più difficile da mettere in una tabella.
E in Telepass quali dati non strutturati state utilizzando?
I dati delle conversazioni dei clienti con i contact center e sui social, sempre nel pieno rispetto della privacy. Ci servono per capire se ci si lamenta di qualcosa ma anche che cosa invece va bene e viene apprezzato. In futuro potremmo usare anche immagini e pdf per migliorare alcuni processi.
Quali sono i principali obiettivi della vostra data strategy?
La nostra pipeline comprende l’ottimizzazione dei servizi che già offriamo e l’efficientamento dei nostri processi, con il conseguente ampliamento dei casi d’uso e lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi per i nostri clienti.
Come i dati possono cambiare i processi interni di un’azienda?
Potenziandoli e automatizzandoli. Il process enhancing espande le funzionalità di un processo già esistente, usando tecniche tipicamente analitiche. Un esempio è l’antifrode: il team dedicato ha le sue regole e i suoi metodi strutturati nel corso degli anni, ma non è detto che stia rilevando tutto, non è detto che un algoritmo non riesca a intercettare qualche tentativo di frode che sfugge all’occhio umano. E poi c’è l’automazione: nella maggior parte dei casi un processo è la manipolazione di informazioni, perché o le sposto da una parte all’altra o ci faccio qualcosa. Usare tecniche analitiche di gestione dei dati nei processi aziendali dovrebbe essere una scelta naturale. Così come procedere all’automazione di attività che vengono ancora eseguite manualmente, come l’inserimento dei dati nei documenti.
Hai detto informazioni. Come si arriva dai dati alle informazioni utili per il business e per il cliente?
Avere il dato non è sufficiente, ma necessario. Bisogna aggiungere un’ossessione per la struttura. Il dato deve essere integrale e governato da standard interni, in modo tale che chi si affaccia al dato lo sappia e lo possa interpretare facilmente. La seconda conditio sine qua non è l’esistenza di un team di competenze interne che questi dati li sappia usare, analizzare e farci cose per un fine. Così riesco a produrre informazione utile per il business.
I dati possono essere la scintilla per nuovi servizi o per entrare in nuovi mercati?
Assolutamente sì, anche se ci sono ancora molte potenzialità di sviluppo. Prendiamo il caso della telematica. Telepass, oltre al dispositivo classico, ha anche il NEXT satellitare, in partnership con Generali, che unisce telepedaggio, assicurazione e telematica ed è in grado di offrire più prevenzione e sicurezza, assistenza e rapidità. Ma i dati potrebbero anche stimolare riflessioni sull’ingresso in nuovi mercati con nuovi servizi.