Per resistere alle sirene, Ulisse si fece legare all’albero della sua nave. L’impresa meccanotessile toscana Unitech Textile Machinery ha fatto l’esatto opposto. Non solo ha detto no alle sirene della delocalizzazione senza grossi sforzi ma ha anche trasformato la scelta di restare in Italia in un’arma contro la crisi. «Dal punto di vista della qualità del prodotto, il fatto di produrre qui e di crescere sul mercato interno dà alla clientela internazionale garanzie che non possono fornire i produttori che si sono spostati in altre aree», ci dice dal quartier generale di Montemurlo (Prato) il presidente di Unitech, Andrea Piattelli. «Un macchinario costruito totalmente nel nostro Paese viene percepito come qualcosa che ha alle spalle una lunga tradizione, su cui è stato fatto un controllo maniacale e per la quale serve parecchia competenza».
La decisione di non muoversi dalla Toscana finora ha pagato. L’azienda produttrice di macchinari da finissaggio per l’industria tessile ha ottenuto nell’ultimo anno commesse per 1,4 milioni di euro, assicurate da Sace, in Brasile, Ecuador e Perù. Il marchio del made in Italy, insomma, si è dimostrato ancora una volta uno strumento efficace per assicurare il livello qualitativo dei prodotti. Tuttavia, non è sufficiente per non farsi mettere al tappeto dai concorrenti che possono contare su costi di gestione più bassi.
Così, la prima parola d’ordine per Unitech è stata spending review: «Abbiamo cercato di ottimizzare i costi aziendali, eliminando tutti gli sprechi e semplificando alcuni processi. Questo ci ha permesso di restare su fasce di prezzo competitive rispetto ad altri», spiega Piattelli. L’altro fronte su cui la società toscana è intervenuta è l’innovazione di prodotto: «Gli investimenti in tecnologia sono stati importanti. Abbiamo brevettato novità e spinto sulla ricerca in modo che i nostri prodotti potessero distinguersi il più possibile rispetto a quelli dei nostri concorrenti».
A giudicare dai numeri, le mosse di Unitech sono state azzeccate. Secondo le previsioni del numero uno, la compagnia potrebbe aver chiuso il 2013 con un fatturato di 23 milioni di euro e un incremento di 5 milioni rispetto al 2012 (+28%). Una performance che va a corroborare il bilancio degli anni precedenti: tra il 2009 e il 2011, nei primi anni della Grande Crisi, le vendite erano aumentate del 43%.
La crescita continua è però anche il frutto di passi compiuti in tempi non sospetti riguardo alla dimensione dell’impresa e alle strategie per
proteggere il credito. «Unitech è nata dalla fusione, nel 2000, di due aziende più piccole, Comet e Santalucia», racconta il leader dell’azienda. «L’idea, all’epoca, era che il “piccolo è bello” fosse un approccio non più sufficiente per affrontare il mercato globale e ampliarsi. Così, abbiamo creato una struttura unica che potesse competere meglio e sostenere costi commerciali per fare promozione all’estero».
Le due aziende operavano in due step differenti della filiera tessile. Non erano concorrenti ma complementari. «Eppure – ammette Piattelli – abbiamo dovuto vincere moltissime resistenze, anche di carattere psicologico e culturale, per unirci e sfruttare le forze che si liberano dall’unione».
Il merger tra le due società ha portato a nuove assunzioni – al momento i dipendenti di Unitech sono circa 80 e una quarantina quelli delle ditte più piccole controllate – e alla costituzione di una rete di agenti commerciali in grado di penetrare anche in mercati poco esplorati ad alto potenziale. «Il risultato? Abbiamo impianti in tutto il mondo e la quota export della nostra produzione oscilla tra il 65 e il 70 per cento».
Uno dei mercati più proficui per l’impresa toscana si sta rivelando appunto il Sudamerica. Ma sia qui che in altre aree extraeuropee bisogna confrontarsi con la pressante richiesta di finanziamento da parte dei clienti. Una partita in cui – sottolinea il presidente – «è stata decisiva, da diversi anni a questa parte, la collaborazione con Sace, che ci ha permesso di garantire i nostri crediti coprendo il rischio Paese degli Stati in cui operavamo e ci ha consentito di scontarli sul mercato». In certi casi, il ruolo della società controllata da Cassa depositi e prestiti, che nell’area latino-americana ha un’esposizione di 3,3 miliardi di euro, è stato addirittura necessario: «Senza Sace avremmo dovuto dire addio ad alcune importanti forniture di macchinari».